La mia opinione di oggi non è un vincolo per il domani, non voglio girare come un cadavere avvolto nel sudario delle mie antiche opinioni.
Emile Armand
Luigi Corvaglia
Un saggio antropologico si apre con la citazione di una scena tratta da un film di cassetta degli anni ottanta, “Mr. Crocodile Dundee”. In questa sequenza, una giornalista occidentale sta puntando la sua Reflex su un aborigeno australiano quando quest’ultimo la ferma dicendo: “non puoi fotografarmi”. Lei: “Ah, capisco, perché temi che la fotografia ti rubi l’anima”. L’aborigeno : “no, perché hai il tappo sull’obiettivo”(1). In effetti, la gag individua ed esprime in modo esemplare le difficoltà relazionali derivanti dalla comune tendenza a proiettare sugli altri, supposti “diversi”, le proprie stereotipate concezioni di come questi dovrebbero essere. Da qui, da questi a-priori epistemologici, il fallimento di molti incontri possibili. Una simile inclinazione a by-passare la prova empirica, resa superflua dall’idea precostituita, è riscontrabile in ogni ambito culturale. Fra questi, anche quelli inclusi nell'area politica che, per definizione, dovrebbe essere scevra da ragionamenti di tale fatta: il libertarismo. Sotto tale etichetta si trova infatti un insieme di filosofie politiche tra loro più o meno correlate che considerano la libertà come il più alto fine politico. Tali visioni, quindi, si fondano sulla promozione della libertà individuale, delle libertà politiche di espressione, culto e associazione. I libertari condividono quindi la diffidenza nei confronti dell'autorità e del potere statale, ma divergono enormemente sulla realizzazione pratica della società libera e sulla portata della loro opposizione ai sistemi economici e politici esistenti. Il liberalismo di destra e l'anarcocapitalismo, da una parte, la sinistra liberale e l'anarchismo, dall'altra, presentano tratti di incompatibilità notevoli, pur potendo descriversi come espressioni dell'ideale libertario. Differenze antropologiche o tappi sull'obiettivo? Il presupposto per rispondere a questa domanda è capire se esista una idea pura di libertà politica per vedere se le varie espressioni del pensiero libertario vi si attengano. Per cercarla, prenderò ad esempio la filosofia libertaria più estrema, l'anarchismo, per analizzarne le discrasie interne. Ciò perchè le due correnti anarchiche, quella socialista e quella anarco-capitalista, si presentano come estremizzazione delle due principali opposizioni rinvenibili in area libertaria.
Il pensiero anarchico è riuscito più di qualunque altra idea “politica” a disinnescare le possibilità disgregative insite nella incompatibilità delle differenti anime che si agitano al proprio interno. Si pensi all’individualismo anti-organizzativo e all’anarco-sindacalismo, per esempio. Eppure, esiste un cuore intangibile nell’anarchismo europeo del novecento - Lakatos lo definirebbe un “nucleo metafisico” -, un presupposto inconfutabile che ne impedisce quella rottura epistemologica che è condizione necessaria per l’aumento di complessità e esplicatività di tutti i sistemi. Tale nucleo, come le teorie infasificabili di popperiana memoria (o i deliri dello schizofrenico), è impermeabile alla critica, non suscettibile di revisione. Questo nocciolo duro è la negazione della proprietà e dello scambio. Chiunque provi a intaccarlo è un nemico e, se si presenta sotto la bandiera libertaria, un falso, un totalitario sotto mentite spoglie. La cosa, curiosa quant’altre mai, ha trasformato gli apostoli della libera sperimentazione in una supponente setta di illuminati sempre pronta a epurare l’eretico e a mandare anatemi verso l’esterno, chiusa al confronto in nome di un fondamentalismo anti-scambista intransigente, non dissimile da un integralismo di marca religiosa. Se le critiche sono ovviamante rivolte al liberismo economico propagandato da tutti i partiti liberali e socialdemocratici, sono vere e proprie scomuniche quelle rivolte ad un'area culturale che si pretende anarchica e si fonda proprio sul libero mercato: l'anarcocapitalismo. Questa concezione prende le mosse dall’opera di Murray Rothbard, ed è portatrice di un liberalismo “totale”, fautrice del libero mercato e della concorrenza in ogni ambito, inclusi quelli storicamente attribuiti allo stato, quali la produzione del diritto e i servizi di sicurezza.
Non è stato difficile liquidare la cosa come “anarchismo di destra”. Fra le due fazioni, quella storica continentale di marca socialista, e quella mercatista americana, vige la reciproca scomunica nello stesso modo in cui Sunniti e Sciiti si etichettano come falsi musulmani. Tali crucifige sono indirizzati, anche a quegli autori dell'anarchismo americano (Joshua Warren, Lysander Spooner, Benjamin Tucker, ecc.) che i free-market anarchists citano, a proposito o a sproposito, quali nobili riferimenti storici e precursori. Probabilmente non prefigurava l’emergere di questi gesuiti dell’anarchia Emile Henry, personaggio che certo non si avrebbe l’ardire di tacciare di scarsa determinazione o eccessiva tenerezza, quando, nella sua cella di condannato a morte, scriveva:
[...] guardatevi bene dal credere che l’anarchia sia un dogma, una dottrina inattaccabile, indiscutibile, venerata dai suoi adepti come il Corano dei mussulmani. No. La libertà assoluta che noi rivendichiamo sviluppa le nostre idee senza sosta, le eleva verso nuovi orizzonti (secondo le menti dei diversi individui) e le spinge fuori dagli stretti quadri di ogni regolamentazione e di ogni codificazione [...] (2) .
A fargli eco, in una cornice ben diversa, fu un uomo che Henry non avrebbe gradito come compagno di prigionia, Camillo Berneri. Questi fu fautore dell’anarchia come “regno della tolleranza” ( e infatti fu, ed è, molto mal tollerato). Egli scrisse che
sul terreno economico gli anarchici sono possibilisti (…) sul terreno politico (…) sono intransigenti al 100%”(3)
Dicendo ciò, il pensatore che poi verrà ucciso dai comunisti durante la guerra di Spagna descriveva un chiaro quadro epistemologico. Egli affermava, cioè, con una certa coerenza, che assioma centrale dell’azione anti-autoritaria è la lotta all’autorità, che le altre sono allora battaglie sotto-ordinate e da questa dipendenti. Per il libertario non esistono tabù, nessuna dottrina economica e nessuna codificazione. I sistemi economici, quindi, saranno da contrastare qualora si pongano quali causa di oppressione, e non in relazione a valutazioni o dogmi di altro genere. Se allo sguardo disincantato del lettore non avvezzo alla logica “incantata” di certi supposti anti-autoritari - persone che, come ebbe a dire Stirner degli atei, “sono gente pia” - , la cosa può apparire lapalissiana, ciò è dovuto proprio alla scarsa dimestichezza con il credo fondamentalista di queste rumorose conventicole che si propongono in spettacolari contorsionismi mentali dai quali si può facilmente cogliere come il nucleo metafisico non sia affatto l’inimicizia per lo stato, ma quella per la proprietà; che, quindi, sia l’anti-statalismo ad essere sotto-ordinato all’antiproprietarismo. Si vedano in proposito le esibizioni di Noam Chomsky e Hakim Bey.
Noam Chomsky e Hakim Bey
Il primo, in particolare, ha auspicato un aumento delle attività dello stato, “per quanto illegittime”, a difesa di “alcuni aspetti della società libertaria” attaccati dal dominate liberismo economico (4). Il secondo, ritiene che lo stato nazionale sia da difendere dagli attacchi delle istituzioni sovra-nazionali. In pratica, una forma di sovranismo. Questi autori hanno ampio seguito nel “movimento” odierno e pochi o nessuno sembra scandalizzarsi delle uscite filo-stataliste di questi “anarchici”. Ciò dimostra la maggior pregnanza, nella cultura dominante in certi circoli “libertari”, dell’anti-proprietarismo rispetto al secondario anti-statalismo, ridotto ad un “life-style”, per dirla con Bookchin, ad un vezzo, per dirla più chiaramente.
Che l'antiproprietarismo sia un fondamentalismo è cosa provata dalla totale chiusura alle ragioni addotte da altre concezioni. In considerazione del fatto che con questa definizione si intende niente altro che un ritorno ad una purezza primaria, cioè, ai fondamenti, appunto, di una data fede, così come rivelati in un Testo rivelato, si impone la ricerca delle “fondazioni” sulle quali si erge l’edificio di questo talebanismo libertario.
Pierre-Joseph Proudhon e Benjamin Tucker
E’ presto detto. Il mito si regge sui versetti dei padri fondatori e dei loro profeti. Non è forse uno slogan da t-shirt, al limite del luogo comune, quello proudhoniano secondo il quale “la proprietà è un furto”? Ora, chi avesse letto sul serio Proudhon, anche in un Bignami, sa che niente era più alieno al tipografo di Besancon della teorizzazione collettivistica. Per Proudhon, il comunismo, limitandosi a trasferire la proprietà dal privato al pubblico, non fa che produrre la massima aberrazione che sia possibile collegare alla proprietà stessa, ossia il monopolio. “I membri una comunità è vero, non hanno niente di proprio– scrive –; ma la comunità è proprietaria, e proprietaria non solo dei beni, ma anche delle persone e della volontà”(5). Con quest’ultima osservazione, Proudhon centra l’attenzione su quella che sarebbe la logica conseguenza della collettivizzazione, cioè la negazione delle antinomie, del pluralismo, perché il collettivo, non tollerando altro da sé, non permetterebbe attività aliene ai sui precetti. Quella che egli propone è, quindi, l’ “universalizzazione della proprietà”, intesa come “possesso” generalizzato, fondato sul lavoro.
Interessante notare che il povero Benjamin Tucker, colpevole di essere citato quale proprio antenato dagli anarco-capitalisti odierni, e quindi oggetto di una congiura del silenzio da parte di tanti sedicenti estimatori del Proudhon, soleva esprimersi in termini assolutamente sovrapponibili a quelli del francese. Ciò avveniva, ad esempio, quando ironizzava sulla soluzione marxista per il monopolio, che per Marx sarebbe il monopolio stesso, oppure quando riprendeva completamente da Proudhon l’idea di rispondere al monopolio statale della moneta con la creazione del credito gratuito. Insomma, il richiamo alle fondamenta contro la corruzione “liberale” è alquanto incoerente. Sia detto per inciso, ma Tucker si dichiarò per tutta la vita “socialista”(6).
Michail Bakunin ed Errico Malatesta
Alcuni duri e puri meno sprovveduti, invero, si dicono, con maggior coerenza, avversi tanto alle “derive” liberali quanto allo stesso Proudhon, considerato un difensore degli interessi piccolo-borghesi. Questi, generalmente, portano nel taschino i santini di Bakunin e Malatesta. Non è forse quasi altrettanto noto dello slogan proudhoniano il motto Bakuniniano “la libertà senza il socialismo porta privilegio ed ingiustizia, il socialismo senza la libertà porta schiavitù e brutalità”? Costoro scordano l’entusiasmo che comunque il russo manifestava per Proudhon e ignorano la svolta “libero-sperimentale” del Malatesta. Il casertano, infatti, pur essendo sempre ricordato come l’apostolo della rivoluzione anarco-comunista, merita un posto di riguardo nel novero di quegli autori che abbandonarono la logica escatologica e il determinismo storicista che rende tanti “anarchici” classici più marxisti di Marx. Fu il critico del positivismo kropotkiniano, ad esempio. Egli, adottata l’idea anarchica quale “lume regolatore”, ritenne - seppur non sganciandosi mai dal mito della rottura violenta della società attuale - che l’anarchia fosse un principio euristico che avrebbe dovuto guidare le azioni degli uomini verso un graduale avvicinarsi a quella sfuggente linea d’orizzonte; l'anarchismo sarebbe invece esattamente quel “metodo di vita e di lotta” che, tramite la libera sperimentazione ( inclusa quindi la sperimentazione economica,) opera in modo compatibile col desiderio di raggiungere detta linea d'orizzonte. (7) Malatesta, quindi, che pure è noto per essere stato un rivoluzionario e un socialista, di certo non può essere definito un intollerante ed un integralista della collettivizzazione come non si ha invece difficoltà a definire tanti sedicenti suoi apologeti, dimostrando così in cosa consista la differenza fra un gigante e dei nani. Stesso discorso si può fare con tanti teorici socialisti dell’anarchismo, da Armando Borghi a Luigi Ferri fino all’anarco-sindacalista Rudolf Rocker.
E’ probabilmente con Francesco Saverio Merlino, comunque, che riappare in modo realmente non equivoco la congiunzione proudhoniana di socialismo e mercato. Egli scrive:
Il socialismo sta nell’equità dei rapporti, nell’abolizione dell’usura, dei monopoli, delle speculazioni, delle frodi, [ma] non nell’interdizione di ogni concorrenza”(8).
Come in Tucker, al quale mosse comunque critiche che qui non rivestono interesse, per Merlino, il socialismo è la condizione di eguaglianza nell’accesso al credito ed ai mezzi di produzione senza che la casta politica dei “capitalisti” impedisca la libera concorrenza e produca monopoli legali e rendite parassitarie; è un’ottica, quindi, in cui il socialismo non è rovesciamento del liberalismo, bensì suo superamento (9). Per uno strano caso, sembra che per i socialisti libertari e gli anarchici in genere, l’avvocato napoletano sia argomento degno sul quale discutere, mentre quello del New England, cioè Tucker, sia a-priori indegno di considerazione perché “filo-capitalista”. E’ una storia di aborigeni e macchine fotografiche.
Quanto a Bakunin, precedentemente evocato, andrebbero fatte alcune precisazioni. La prima è che è vero, con l’agitatore russo la società nuova auspicata arriva a coincidere con la società collettivizzata, ma bisogna ricordare che con ciò egli rompe completamente con la tradizione anarchica precedente, quella che, dopo di lui, continuerà parallela e marginalizzata. Come scrive lucidamente Massimo La Torre,
Con Bakunin l’anarchismo soffre, per così dire, di una torsione ideologica che lo spinge verso una direzione non ancora impressa al pensiero libertario nelle sue precedenti manifestazioni e ciò che l’anarchismo con lui guadagna in visibilità e forza utopica - e, mi si consenta, in ‘tono di voce e volume di suono’ -, perde in contatto con una delle sue più importanti fonti d’ispirazione.
E ancora:
[...] con lui irrompe nella filosofia politica libertaria una ventata di romanticismo - già annunziata, invero, anche da Max Stirner - e tramite essa irrompe un certo irrazionalismo e la tentazione dell’estetizzazione della politica.
Se ne conclude che solo l’atto rivoluzionario, per il nichilista di Priamouchino, come un vento che spazza il mondo vecchio, un fuoco che purifica dal peccato, può instaurare il mondo della cornucopia libertaria e socialista. “Gli elementi romantici – continua La Torre - tendono così a farsi gnosi, atteggiamento manicheo, attesa messianica dell’era nuova.” (10) Con Bakunin, quindi, si ha la costruzione del tipo antropologico dell’anarchico così come lo conosciamo, cioè un rivoluzionario ottocentesco che circola per il mondo moderno con le istruzioni per la palingenesi nella tasca del panciotto. Conclude, infatti, l’autore del testo citato:
Duole dirlo, ma in Bakunin si ritrova una critica della democrazia e del parlamentarismo simile a quella antimoderna e antiegualitaria del romanticismo politico.”(11)
Bakunin, in pratica, si differenzia da Marx solo per i mezzi, non per i fini. C’è nel russo lo stesso sacrificio alla teologia, lo stesso ottuso ottimismo, la stessa credenza hegeliana nel compimento della storia, l’identico odio per la proprietà privata che, ci ricorda Onfray (12), è ereditato dal padre di tutti i totalitarismi, Rousseau, dal quale entrambi prendono in prestito la loro critica della modernità e il discredito gettato sulla tecnica. Questa è idea che si inscrive in un filone di pensiero che ha l’indubbia colpa di aver permesso, ai giorni nostri, ad un personaggio della mediocrità di John Zerzan di essere venerato come un guru da una tribù di anti-autoritari alla ricerca dell’autorità dei guru. Da tutto ciò Malatesta seppe tenersi alla larga.
Per farla finita col libertarismo agostiniano
Se si vagheggia una società nuova che universalizzi il bene supremo della libertà e si strutturi staticamente come luogo senza frizioni, é evidente che ci troviamo nell’ambito della prescrittività tipica della concezione democratico-giacobina. Questa si svolge sotto l’angosciante ombra di quella libertà positiva tesa alla realizzazione della pienezza delle potenzialità umane. E’, in fondo, la secolarizzazione della tesi teologica di Sant'Agostino per cui l’uomo diviene veramente libero quando riesce a volere solo il Bene. Ma, come scriveva Berdjaev: “Ogni confusione e identificazione della libertà con il bene stesso e la perfezione equivale a negare la libertà, a riconoscere la via della violenza e della costrizione”.
L'’anarchismo, paradossalmente, è una teoria della libertà che si basa su un principio totalitario. Fra gli autori anarchici che hanno centrato il problema c’è Tomàs Ibanez, una persona sulla cui fedeltà al paradigma socialista non è possibile sollevare sospetti. Vale la pena di leggere quanto questi freddamente nota:
La cultura implicitamente totalitaria che sottende all’esigenza anarchica di libertà si mette in evidenza quando si percepisce che l’individuo socializzato in una cultura libertaria, non dispone, per definizione, di alcun mezzo per affermarsi positivamente contro questa cultura. In effetti, l’anarchismo esclude per principio che qualsiasi altra cultura possa essere preferibile alla cultura anarchica, poiché dall’istante in cui l’esigenza della libertà è posta come valore fondamentale, ogni opinione che implica una minore esigenza di libertà costituisce automaticamente e necessariamente una opzione meno legittima. Dato che la società anarchica rivendica il privilegio di essere la società della massima libertà, ne consegue che nessun’altra forma di società può esserle preferibile! Volendo essere una teoria centrata sulla libertà, l’anarchismo apre su una cultura che esige l’adesione di ognuno per poter esistere e che contesta la legittimità di tutto ciò che non è sé stessa(13).
E' cosa nota che la fede nella assoluta preferibilità di un modello rispetto a tutti gli altri porti al totalitarismo, ma il paradosso qui evidenziato riguarda il rischio di una simile conseguenza nel modello che, per costituzione, dovrebbe essere antitetico ad ogni assolutismo. La conclusione, insomma, è che l’agognata società futura, non più “lume regolatore” malatestiano ma eden delle uri che si trova appena svoltato l’angolo della rivoluzione, si riduce proprio a quel socialismo senza libertà di cui ci parlava lo Bakunin dicendo che porta schiavitù e brutalità. La rivoluzione, ci ricorda la Harendt, è quell'atto il giorno dopo il quale ogni rivoluzionario è un conservatore. Dal cerchio non si esce, o si permette a tutti di fare ciò che si vuole, incluso produrre e disporre dei beni prodotti, e in tal caso, non si darebbe società socialista, oppure ciò non si permette, e allora non si darebbe società anarchica. Invischiati in questa impasse, inquadrate in questa cornice, acquistano maggior senso le osservazioni di Nico Berti su “destra” e “sinistra”, sulla collocazione, cioè, dell’anarchismo in rapporto a queste direttrici spaziali assurte a simbolo di posizioni filosofiche ed esistenziali. L’anarchismo non può che essere “oltre la destra e la sinistra”, perché l’una e l’altra sono accumunate da una logica di potere, cioè “esattamente da quella logica di parte, che, in quanto parte, vuole assumere la valenza di essere il tutto”(14). Questa stessa copertura totale, senza residui, questa medesima “reductio ad unum” che è ancora tutta imperniata sul principio di potere è presente nella concezione dominante dell’anarchismo, carica di entusiasmo profetico, messianico e totalizzante, difficilmente distinguibile, quanto ad ethos, dai deliri di un Fourier o un Saint Simon.
L’anarchismo, in altre parole, sembra negare se stesso ed esitare in una cultura totalitaria. Vero, ma ad una condizione: che lo si faccia coincidere proprio con questa reductio ad unum, cioè con un progetto che, in nome del Bene, finisce col sacrificare il molteplice (cioè tutti gli spazi di libertas minor, come direbbe Agostino) al singolare (libertas maior). Monoteismo etico. Per molto tempo la libertas maior degli anarchici è stata il socialismo, nelle sue varie declinazioni. Il dilemma di Ibanez, altrimenti irrisolvibile, appare però illusorio se sostituiamo alla collettiva libertà democratica l’individuale autodeterminazione liberale. Immaginiamo una società che ricerchi solo la mancanza di costrizione, che risponda, cioè, ai criteri per la “società aperta” come descritta da Popper. Questa prevede una inversione di quello che Rawls definirebbe l’”ordine lessicale”, cioè la subordinazione dell’anticapitalismo ad un principio guida, la libertà. Che in tal caso sia facile uscire fuori dal paradosso di Ibanez lo dimostra chiaramente lo stesso Berti (15) quando risponde ai critici della cultura liberale entro la quale egli ritiene si debba partire per attualizzare l’anarchismo. Per i detrattori del liberalismo anche questo è una forma di pensiero unico che finisce per creare una sorta di totalitarismo. “Come dire: anche il liberalismo ha un fondo antiliberale”. Ora, quando anche si desse l’improbabile condizione di una completa comunione di vedute, ciò non comporterebbe alcun totalitarismo, perché esso consiste, piuttosto, “in una uniformità coatta di vedute”. La libertà liberale, che è negativa, semplice mancanza di coercizione e, quindi, non prescrive, non può produrre esiti totalitari. Ce lo ricordava Rudolf Rocker, titolare di un aforisma di una certa fama: “molte strade portano alla dittatura dalla democrazia, nessuna dal liberalismo”(16). Insomma, qualcuno potrà sempre essere libero di essere socialista o mussulmano, “ma si è sempre nella più perfetta libertà anche di negare a questo qualcuno la libertà – la sua – di imporre coattivamente ad altri la sua fede.” Non più utopia, questa è, per dirla con Nozick, una “impalcatura per utopie” (17) (cioè, politeismo etico). Insomma, visto in questi termini, il paradosso di Ibanez viene degradato a “gioco di parole”. Altrimenti torna S. Agostino.
Rudolf Rocker e Robert Nozick
Si scopre così, consegnato al cimitero delle idee l’agostinismo libertario, che l’anarchismo, se vuole essere coerente, può essere solo inveramento del liberalismo. A questo punto, il liberalismo coerente, nella sua forma di "noumeno", è una forma di anarchismo, prima di precipitare nel mondo sensibile. Ma di quale "liberalismo" parliamo? Di quello distillato e depurato dalle scorie metafisiche e da quel moralismo che diventa il bene imposto di Berdjaev, il liberalismo che persegue una società in cui non ci siano Verità ultime, maiuscole e universali ma ognuno pratichi la sua, minuscola e particolare verità locale in associazione con altri forniti di medesima concezione. Nessun monoteismo etico potrà garantire la libertà, essendo la società per natura antinomica e plurale. Plurali dovranno essere i progetti.
Camillo Berneri, Piero Gobetti e Carlo Rosselli
Un libertarismo consequenziale è quindi rappresentato da attivisti e pensatori provenienti tanto dall'anarchismo meno profetico e palingenetico, più aperto al mercato (Proudhon, Berneri, Spooner, per esempio) quanto dal liberalismo democratico, più attento alla giustizia sociale (Ernesto Rossi, Piero Gobetti, Gaetano Salvemini, ecc.). Benchè possa parere assurdo che liberali ed anarchici possano intendersi, una volta tolto il tappo dall'obiettivo della nostra camera, ci accorgeremo che più che composto da categorie discrete, quello del libertarismo è uno spettro lungo il quale si situano, su varie rette che si intrecciano, posizioni poste lungo dei continuum. L'anarchico Camillo Berneri collaborò con l'organo clandestino del movimento socialista-liberale "Giustizia e Libertà" e dialogava con Carlo Rosselli e Piero
Gobetti. Mutualismo, federalismo, banche popolari, laboratori in cooperativa, prestiti reciproci, affiancamento di proprietà collettive e laboratori autonomi, compagnie operaie, federazioni di produttori e consumatori, insomma tutto l’armamentario che può dar luogo ad una socializzazione liberale, se non ad un socialismo libertario, sono fra le varie proposte dei teorici del liberalismo democratico, eppure sono tutte proposte di Pierre-Joseph Proudhon (18).
Appare allora evidente che liberalismo conservatore dei neocon o il paleolibertarismo anarchico, che è la versione conservatrice dell'anarcocapitalismo, si situano al margine dello spettro e quindi contigui ad aree autoritarie. Il conservatorismo libertario enfatizza solo la libertà economica ed è invece ostile al riconoscimento dei diritti individuali riguardo a temi etici (aborto, diritti LGBT, sostanze stupefacenti, ecc.), configurando una reductio ad unum che si concretizza in quell'"imporre coattivamente la propria fede" di cui si parlava sopra e agisce secondo un monoteismo etico ed una logica agostiniana, specularmente opposta, ma stranamente analoga a quella dell'anarchismo classico. Due forme di libertarismo autoritario.
Pongo dunque a sugello di questo scritto, nello stile aforistico che lo ha contraddistinto, la considerazione che Berneri poneva a chiusura del suo articolo sulla tolleranza: “A questo punto qualcuno protesterà. E' per quelli che non sono d'accordo con me che ho scritto questo articolo”(19).
Note
(1) M. Aime, L’incontro mancato, Turisti, nativi, immagini, Bollati Boringhieri, Milano, 2005
(2) E. Henry, Lettera al direttore del Conciergerie, in D. Guerin, Né Dio né Padrone, Milano, 1971, p. 350
(3) C. Berneri, Per un programma di azione comunalista, in Pietrogrado 1917 Barcellona 1937, a cura di Pier Carlo Masini e Alberto Storti, Milano, Sugarco, 1964, pag. 98
(4) si rimanda al mio saggio sulla libertà negli USA (L. Corvaglia, La sovranità dell’individuo, Don Juan Ondine Books, 2000, pag. 32) on line: http: www.scaruffi.com/us/corvagli.html (5) in G. Berti, Il pensiero anarchico dal settecento al novecento, Manduria, Lacaita, 1998, pag. 507
(6) A. Donno (a cura di), America anarchica, Lacaita, Manduroa, 1998
(7) E. Malatesta, Repubblicanesimo sociale e anarchismo, “Umanità Nova”, Roma, 27 Aprile 1922
(8) F. S. Merlino, Pro e contro il socialismo, Esposizione critica dei principi e dei sistemi socialisti, Milano, 1987, p. 41
(9) in N. Berti, op. cit., pag. 967
(10) M. La Torre, Ragionare, discutere, agire pubblicamente, negoziare (II) "Una Città"n. 88 , Settembre 2000 (edizione on line: www.unacitta.it)
(11) ibidem
(12) M. Onfray, La politica del ribelle, Ponte delle Grazie, Milano, 1998, pag. 92
(13) T. Ibanez, Questa idea si coniuga all’imperfetto, in “Volontà”, Milano, n. 3-4, 12/1996, pp. 271-279, pp. 275 e 276
(14) N. Berti, Oltre la destra e la sinistra, in in “Volontà”, Milano, n. 3-4, 12/1996, pp. 107-112, pag. 110
(15) N. Berti, Libertà senza rivoluzione. L'anarchismo come sconfitta del comunismo e la vittoria del capitalismo, Manduria, Laicata, 2013
(16) R. Rocker, Nazionalismo e cultura, Edizioni Anarchismo, Catania, 1977, I vol., pag. 155
(17) R. Nozick, Anarchia, Stato, Utopia, Le Monnier, Firenze, 1981, pp. 329 e 330. Si rimanda anche a L. Corvaglia, Anarchia come anti-utopismo, “Clio- Rivista Trimestrale di Studi Storici”, Napoli, IV, 2004
(18) M. Onfray, op. cit., pag. 97
(19) C. Berneri, Della tolleranza, “Fede” (Roma), 20 Aprile 1924
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