Sette e Teoria dell’ Etichettamento
di Luigi Corvaglia
ll più grande nemico della
conoscenza non è l'ignoranza,
ma l'illusione della conoscenza
S. Hawkings
E’ talmente tanto tempo che la dottoressa Raffaella Di Marzio esprime il medesimo concetto che è appropriato parlare di reiterazione. E’ chiaro che l’insistenza su un concetto solitario non è necessariamente indice di penuria di altre idee; può anzi essere segno di coerenza e di incrollabile fiducia in quella isolata concezione. Vista così, non si può che dar atto alla dottoressa Di Marzio di una grande fedeltà alla sua idea. Ciò che lascia perplessi è che l’idea è sbagliata. Mi rendo conto che il giudizio è tranchant e che denota un livello di convinzione almeno pari a quello della Di Marzio nella sua idea, ma dove entra l’oggettività non è che rimanga troppo spazio per l’opinione personale. L’idea che la direttrice di LIREC proclama appellandosi all’incolpevole sociologo H. S. Becker è che le “sette”, cioè i gruppi abusanti, non sono una realtà oggettiva, ma una costruzione sociale, una devianza inventata, un prodotto dello “stigma” creato da “imprenditori morali”. La studiosa fa rientrare questo concetto nella “teoria dell’etichettamento” che, in effetti, proprio al povero Becker è strettamente connessa. Quella che è singolare è l’interpretazione che ella ne fa. E’ evidente che l’esperta si riferisca alla celeberrima sentenza espressa a pagina 9 di Outsiders in cui Becker dice “è deviante ciò che viene definito tale con successo”, uno slogan che, traslato all’ ambito a cui la studiosa lo forza, suona “è setta ciò che viene definito tale con successo”. Se non fosse definito così, nessun gruppo sarebbe una setta. Ignoro dove la studiosa abbia studiato la teoria dell’etichettamento interpretandola come quella che postula che la devianza sia solo un fatto nominalistico, di “etichetta” appunto. Di certo, si fosse presentata a esporre questo concetto in una delle sessioni di Criminologia che mi hanno visto impegnato nel ruolo di rognoso componente della commissione non sarebbe tornata a casa con un nuovo esame trascritto sul libretto. Direi che è il caso di cominciare a fare un po’ di chiarezza, almeno quella che sarebbe utile per fare una figura dignitosa in ambienti mediamente sofisticati. Innanzitutto, la teoria dell’etichettamento, solitamente legata al nome di Becker (che, però, non voleva esservi collegato) è la versione estrema dell’approccio interazionista (che è di Edwin Lemert, visto che ci piace fare i riferimenti professorali). Questa lettura ha allargato lo sguardo dalle caratteristiche intrinseche del deviante alla reazione sociale ai suoi atti. Che significa? Semplicemente che la stigmatizzazione che colpisce l’autore di un primo occasionale atto oggetto di censura (devianza primaria) lo indurrà a proseguire la carriera di deviante (devianza secondaria) a causa della acquisizione della identità deviante. In altri termini, chi viene riconosciuto socialmente come criminale verrà portato a proseguire la sua carriera criminale adattandosi a quella identità. Orbene, se c’è qualcosa che nei gruppi abusanti NON avviene, è proprio l’adeguamento della propria identità all’etichetta sociale! Nessuna "setta" si identifica come tale. Insomma, se esiste una teoria sociologica che è la meno adatta a spiegare il fenomeno questa è proprio quella dell’etichettamento!
Becker ha solo esasperato questo riduzionismo sottolineando la relatività delle norme che definiscono la devianza. La dottoressa dovrebbe studiare meglio. Capita di non essere preparati, ma almeno in tali condizioni si dovrebbe evitare di dare lezioni agli altri. In secondo luogo, mi sembra che la dottoressa Di Marzio faccia confusione su due aspetti. Per uno dei due suppongo la buona fede. Infatti è solo perché ignora la teoria – escluso che per la Legge, l’ignoranza è sempre una valida scusante – che la nostra esperta immagina che l’etichettamento si riferisca alla semplice creazione di una definizione dispregiativa e che ciò scateni la censura sociale (in pratica, il processo inverso a quello postulato da Lemert). Intendiamoci, dire che il termine “setta” è una etichetta dispregiativa, che è inadeguata in ambito scientifico è giusto. In tal senso è vero che “setta è ciò che viene definito tale con successo”. Ha ragione la Di Marzio. Infatti, la definizione può allargarsi e stringersi come una fisarmonica, a seconda di chi ci dà più noia. E’ qui che diventa importante introdurre il secondo aspetto di confusione prodotto dall’ esperta, quello per il quale non confido nella buona fede. Si tratta della confusione fra il livello della “forma” (l’essere culto minoritario) e quello del “contenuto” (i comportamenti abusanti). La dottoressa li mescola producendo un artefatto logico. Si fa passare l’idea che la famosa “devianza” socialmente costruita, l’ oggetto della censura, sia il semplice fatto di costituirsi quali gruppi minoritari, di “deviare” dalla norma. Ovviamente questo è falso. La maggioranza dei culti minoritari non costituisce alcun interesse per chi si preoccupa della salvaguardia dei diritti individuali. In realtà, basta utilizzare diciture più stringenti, cioè che separino i due piani, perché il sofisma nominalistico cada. Nessun individuo onesto potrà mai dire “culto abusante è quello che viene definito tale con successo”. Abusi e sfruttamento sono dati oggettivi che esistono o non esistono indipendentemente dalla reazione sociale. Negarlo sarebbe segno di un qualunquismo e di un soggettivismo che mal si conciliano con l’orizzonte religioso in cui si svolgono gli studi della nostra autrice. Interessante è rilevare che la posizione di chi esprime idee pregiudizialmente apologetiche riguardo i culti minoritari si rivela una sorta di “scacco matto”. Infatti, nel caso in cui si sia oggettivisti e non si considerino gli abusi quali costruzioni sociali, frutto della “creazione della devianza” (non ci credeva neanche Becker), si è costretti ad ammettere l’esistenza di culti abusanti; se invece si è partigiani di un relativismo radicale come quello appena discusso si realizza un formidabile boomerang intellettuale. Infatti, una lettura scettica che riduce i fatti a pura apparenza, a frutti di giochi semantici e attribuzioni senza base concreta, comporta la sospensione del giudizio, non solo sui culti, protetti da una notte in cui tutte le vacche sono nere, ma sugli abusi stessi. Si finisce così con lo sfociare in un esasperato indifferentismo che, invece di difendere i culti innocui dalla persecuzione, comporta lo sdoganamento di quelli criminali e degli abusi che vi si compiono. In altri termini, stupro è ciò che viene definito tale con successo. È chiaro che nessuno vuol dire che la studiosa cattolica intenda sdoganare abusi e vessazioni, ci mancherebbe, ma potrebbe non esser consapevole di dove finiscano le vie di fuga logiche prodotte da sentenze ad effetto e decontestualizzate (e soprattutto non capite). E’ solo a causa di ciò che sentiamo di suggerire alla dottoressa Di Marzio di fornire presto una compagnia alla sua idea solitaria.
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