Negazionismo del Covid, anti-vaccinismo, ipotesi di complotto: la santa alleanza destra/sinistra contro i Lumi e le colpe degli intellettuali. Luigi Corvaglia
Pubblicato da MicroMega il 14 Febbraio 2022
1. La fine della competenza
Quando Edgar J. Hoover, l’uomo che ha governato l’FBI per più di quarant’anni, decideva di mettere sotto controllo il telefono di una persona accusata di sovversione, usava preparare due cartelline, una con la dicitura “sovversivo” – nel caso in cui le conversazioni ascoltate fossero state compromettenti – e un’altra intitolata “sovversivo astuto”– nel caso in cui non lo fossero state. Era un meccanismo efficiente ed implacabile. Questa immunizzazione alla confutazione è simile a quella riscontrabile nelle teorie cospirative che infestano la rete. “Se sembra un complotto – dice Rob Brotherton – significa che è un complotto. Se non sembra un complotto, è sicuramente un complotto. Le prove contro la teoria del complotto diventano prove del complotto”[1]. La sostanziale differenza fra le due situazioni è nel fatto che Hoover era cinicamente consapevole di piegare i dati alle sue esigenze, mentre il cospirazionista è uno scettico radicale incosciente di prendere parte ad un processo paranoico diffuso. Ideazioni deliranti che pochi decenni fa avrebbero garantito una diagnosi psichiatrica non sono più corredate dal criterio della non condivisione. Chiunque si trovi travolto dallo tsunami comunicativo seguito allo sconquasso pandemico può testimoniarlo. Lo fa anche il Censis nel suo recente rapporto: Per il 5,9% degli italiani (circa 3 milioni) il Covid non esiste, per il 10,9% il vaccino è inutile., per il 31,4% è un farmaco sperimentale e le persone che si vaccinano “fanno da cavie”, per il 12,7% la scienza produce più danni che benefici […] per il 19,9% il 5G è uno strumento sofisticato per controllare le persone.[2] Negazionismo del Covid, anti-vaccinismo, ipotesi di complotto che includono il controllo della popolazione tramite la tecnologia 5G o lo sterminio dell’umanità tramite i vaccini, in varie combinazioni, sono idee che godono quindi di un seguito minoritario ma assolutamente rilevante. Molti esperti da rotocalco hanno pontificato in merito. Opinionisti della psicoanalisi hanno emesso sentenze sul ruolo di processi inconsci non meno inconfutabili della duplice cartellina di Hoover. Frotte di psicologi hanno diligentemente stilato gli elenchi dei bias cognitivi che portano negazionisti e anti-vaccinisti all’errore. Qualcuno rispolvera Popper e la sua idea della cospirazione come sostituzione secolare del mito degli dei. Pochi hanno messo in evidenza, invece, il brodo di coltura, l’ambiente concettuale nel quale la pandemia ha svolto il ruolo di catalizzatore di processi già in corso da decenni. Antintellettualismo, sfiducia nel pensiero competente, mediocrità delle élites (politiche e culturali), relativismo radicale, qualunquismo, irrazionalismo. Già più di trent’anni fa, tutto ciò faceva dire ad Isaac Asimov che
Una vena di antintellettualismo si è insinuata nei gangli vitali della nostra politica e cultura, alimentata dalla falsa nozione che democrazia significhi “la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza”[3].
Ancora in epoca pre-pandemica, Tom Nichols su questa morte della competenza aveva scritto un saggio diventato famoso, edito in Italia col titolo di La conoscenza e i suoi nemici (LUISS, 2018)[4], in cui sottolineava come la diffidenza verso le competenze ha portato ad un processo che prima produce disinformazione e poi sfocia nell’ “errore aggressivo”. Infatti, ciò che rende temibile il fenomeno è il fatto che questo si presenti in forme rabbiose verso supposte elites culturali, politiche ed economiche, con gravi rischi per la democrazia. Lo abbiamo visto chiaramente da questa e dall’altra parte dell’oceano. Sarebbe comunque errato attribuire fallacie cognitive, qualunquismi ed “errori aggressivi” a una compagine irrazionale, ignorante ed emarginata. Ciò, innanzitutto, perché l’economia comportamentale ci dimostra che nessun essere umano agisce secondo la “ragion pura”. In secondo luogo, perché benché, dall’Illuminismo in poi, il baricentro occidentale sia stato nella logica e nella oggettività, nei momenti di incertezza tale baricentro sussulta e scivola sempre in modo ondivago. Il problema, semmai, è che in tali condizioni, le scelte e le visioni individuali enfatizzino una suddivisione ingroup-outgroup di stampo tribale. Per ultimo, non si può dimenticare che questa atmosfera culturale ostile agli “esperti” è – anche e non solo -, il precipitato rancoroso di fenomeni “alti”, la tracimazione nella cultura di massa di deliqui post-moderni in stile parigino ed “eclissi dell’illuminismo” di marca francofortese. A partire dalla metà del XX secolo, infatti, una serie di correnti ideologiche hanno iniziato a confluire e poi ibridarsi in un punto della mappa culturale in cui si diffida di ogni informazione data per certa. Sono le cosiddette “filosofie della crisi” generalmente inquadrate sotto l’etichetta di “pensiero post-moderno” o postmodernismo. Vi rientra il post strutturalismo di Lyotard, che supera la visione organica della realtà come sistema unitario e leggibile in modo oggettivo e scomponibile, ma anche il decostruzionismo di Jacques Derrida, così attratto da tutto ciò che è indeterminato, frantumato o appaia come deriva dell’identità. È un pensiero che si rifà a Nietzsche. Questi affermava che “non ci sono fatti ma solo interpretazioni”. In altri termini, è illusorio cercare la verità, essendo questa sempre filtrata dal vissuto esperienziale di ciascuno. Un pensiero, pertanto, che si caratterizza per una concezione relativistica del sapere, quindi per l’ostilità nei confronti della oggettività scientifica e un apprezzamento di qualsiasi tradizione lontana dal pensiero razionale. La buona novella che si diparte da Parigi è che “la modernità è finita”, dove per modernità si intende la ragione. Questo make up intellettuale, col suo rigetto della razionalità strumentale, della fiducia nel progresso e nelle possibilità di mutamento sociale, nella logica kantiana, insomma in tutto ciò che è venuto fuori dall’Illuminismo, ha prima nobilitato lo spiritualismo New Age e poi permesso l’ibridazione di questo con le teorie cospiratorie, un fenomeno messo in evidenza già nel 2011 da Ward e Voas col termine di conspiritualità[5]. La sintesi di teorie del complotto e spiritualismo post-hippie porta al paradossale esito per cui una concezione nata nell’alveo della intellettualità più “progressista” è arrivata ad esplicarsi in quello che non si esita a definire eco-fascismo[6].
Tutto cominciò con Jean-Francois Lyotard, maîtres à penser a cui si deve la fortunata etichetta di postmodernismo (suo il libro La condizione postmoderna[7] che le dava battesimo). Egli annunciò la fine delle “grandi narrazioni”, dimostrandosi fra i migliori spacciatori di quelle formule di successo che qualcuno chiama “memi” ed altri, in modo forse meno cool, “luoghi comuni”. Il concetto è che le idee e le spiegazioni che fornivano all’uomo dei riferimenti, i punti cardinali che davano ordine al mondo, come la religione e le ideologie, hanno fallito e sono finite. L’annuncio era che l’uomo è entrato in una terra ignota e non ha una bussola. Ora, essendo la scienza la più tipica delle “grandi narrazioni” della modernità, anche questa ha perduto definitivamente la sua autolegittimazione e si è ridotta ad essere una delle possibili ideologie. Insomma, se la gioca alla pari con lo sciamanesimo e il vudù. Senza alcun vantaggio. A partire da un certo periodo il richiamo all’esame di realtà è liquidato come residuo di positivismo. Da qui la sfiducia nei saperi costituiti, nelle scienze esatte, in tutto ciò che è il cosiddetto “pensiero competente”. Le conoscenze esatte vengono degradate a miti condivisi e i miti rivalutati come forme universali di conoscenza. Astronomia e astrologia, per esempio, divengono due “tradizioni”, due tribù culturali con eguale dignità, benché l’astrologia sia sicuramente più interessante, perché pre-moderna e democratica, non chiusa alla pratica per le persone non scientificamente competenti [8]. Quindi, l’immunologo e l’idraulico che si informa su facebook si equivalgono, ma del primo è bene dubitare di più, con la sua pretesa antidemocratica di oggettività. Ma è qui che questo pseudo-egualitarismo manifesta un antiautoritarismo più apparente che reale. Giovanni Jervis, psichiatra che non temeva certo di essere etichettato quale conservatore o anti-egualitario, visto che è stata una delle figure cardine del pensiero critico degli anni ‘70[9], ha descritto perfettamente questo milieu quando scriveva che
A chi fa notare che alcune teorie sono più verosimili perché meglio verificate, viene contrapposta un’obiezione: “Chi decide cosa è verosimile? Con quale autorità ci si vorrebbe portare ad arbitri della verità?”. Ma “Chi decide?” al posto di “quali fatti decidono?” dimostra la debolezza del ragionamento (…) E qui l’idea di autorità, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra. […] E allora accade, inevitabilmente, che qualcuno risulti più dotato di carisma di qualcun altro, e finisca per essere più ascoltato. In pratica, non è vero che tutti i pareri siano ugualmente autorevoli: a qualche individuo più che ad altri – abbiamo tutti bisogno di padri, diceva Freud – viene attribuita una dose insolita di saggezza. In questo modo, rifiutando gli esperti ci si ritrova fra le braccia dei santoni[10].
La descrizione si attaglia perfettamente alla situazione in cui i social media, pullulano di “guru” le cui voci alternative parlano alle emozioni ed ai pregiudizi di una massa di scettici del sapere ufficiale. Va da sé che la sostituzione degli “esperti” con i “santoni” non rappresenta alcun problema per lo scettico postmoderno. Con il motto “Everything goes” (“tutto va bene”), infatti, l’epistemologo austriaco Paul Feyeradend aveva già inaugurato l’anarchismo metodologico (che si potrebbe meglio definire “dadaismo”, come lo stesso Feyerabend ha ammesso in più occasioni). In testi come Contro il metodo[11], La Scienza in una Società libera[12] e Addio alla Ragione[13], Feyerabend negava qualunque valore al metodo scientifico e proponeva un programma inequivocabile:
Bisogna lasciare spazio a tradizioni in contrasto con la scienza e con il razionalismo. Si tenterà dunque di minare con tutti i mezzi disponibili il potere della scienza e del razionalismo[14].
Ci troviamo all’esatto ribaltamento di quanto scriveva Kant sull’oppressione dell’ignoranza e sul potere di liberazione del sapere. Il sapere è diventato un potere oppressivo e l’ignoranza una forza liberatoria. Il diritto ad una sorta di santa ignoranza che deriva dal relativismo radicale porta con sé la pretesa “democratizzazione” della conoscenza e la competizione fra “tradizioni”, siano esse l’astronomia o la danza della pioggia. Feyerabend infatti trovava disdicevole che
(…) benché un americano possa scegliere oggi la religione che preferisce, non gli è ancora permesso di chiedere che i suoi figli imparino a scuola la magia anziché la scienza. Esiste una separazione tra stato e chiesa e non esiste una separazione fra stato e scienza[15].
Come non bastasse, egli si fece fautore di un controllo popolare sulla scienza e sugli scienziati. Scriveva:
Quando una cosa è importante o per un piccolo gruppo o per la società nel suo insieme, tale giudizio dev’essere sottoposto all’esame più esatto. Comitati di profani eletti pubblicamente devono accertare se la teoria dell’evoluzione è davvero così ben fondata come vogliono farci credere i biologi, se una “buona giustificazione”, come la intendono loro, esaurisce veramente la questione e se nelle scuole non debbano essere presentate anche altre opinioni, come per esempio la dottrina della Genesi[16].
È questa una concezione distopica tutt’altro che emancipativa. Feyerabend anticipa, in pratica, il populismo e la demagogia dell’“uno vale uno” nei cui cascami politici la contemporaneità si trova a inciampare. Anticipa, altresì, le tesi del comunitarismo nordamericano, corrente di pensiero non propriamente progressista, che pretende che lo Stato riconosca le irriducibili peculiarità culturali di ciascuna comunità, avallando con ciò qualunque teoria o costume di cui queste fossero portatrici, anche qualora fossero illiberali e ostili alla democrazia. Esattamente come fanno i difensori dei culti totalitari noti come “sette”. Se esiste la libertà di culto, che diritto abbiamo di criticare il guru che sfrutta sessualmente o economicamente i suoi adepti? Mettere in luce l’esito politico dello scetticismo postmoderno è importante, perché la decostruzione della scienza e l’affermazione del relativismo degli schemi concettuali fanno parte del bagaglio progressista e la proposta alla base del postmodernismo è originariamente emancipativa. Invece, come fa notare Maurizio Ferraris,
Le critiche alla scienza come apparato di potere e come libero gioco di schemi concettuali hanno dato vita a quello che potremmo chiamare un «postmodernismo conservatore». Che è tipicamente quello a cui ricorre Ratzinger quando si serve di Feyerabend per sostenere che dopotutto quello tra Galileo e Bellarmino era un semplice confronto tra schemi concettuali equivalenti, e che i conflitti interni alla razionalità umana sono in quanto tali irrisolvibili, perché la soluzione si trova solo facendo ricorso a una razionalità superiore[17].
Il relativismo ed il dogmatismo, paradossalmente, finiscono per avere un punto di contatto. Come segnala giustamente Jervis:
Le convinzioni dogmatiche di tipo religioso sono infatti assai vicine alle posizioni relativistiche perché sono concezioni soggettivistiche: si parte dalla convinzione interiore anziché dall’esame utile della realtà, così come avviene di solito nella ricerca scientifica. Pertanto, relativisti e dogmatici si trovano, senza alcun dubbio, su trincee opposte, ma accumunati come sono dal disprezzo per la realtà finiscono per somigliarsi più di quanto vorrebbero[18].
Non è infatti oggi una rarità trovare nella medesima alcova esponenti della sinistra più affezionata al dadaismo epistemologico e personaggi provenienti da ambienti del conservatorismo più dogmatico e reazionario.
2. Filosofia “No Vax”
Avvezzi a questi rapporti senza protezione, non sorprende assistere a fenomeni come la commissione denominata Dubbio e Precauzione (ridicolmente abbreviata in DuPre), una compagine di intellettuali critici su green pass e vaccini obbligatori, perché hanno cara “la difesa della libertà e dei diritti civili”. Esponenti principali ne sono due filosofi precipitati dal mondo post-moderno: Giorgio Agamben e Massimo Cacciari. Il primo ne discende in modo più diretto, centrato come è sulla “biopolitica” foucaultiana, il secondo in modo più laterale, sulla scia Nietzsche-Wittgenstein e del “pensiero negativo”. Nella loro mente c’è comunque sempre l’idea foucaultiana o neo foucaultiana del controllo, un’idea che nell’era digitale, in cui basta avere un cellulare per essere tracciati, è risibile immaginare il Potere debba applicare con un lasciapassare. Il testo che ben cento fra accademici ed intellettuali hanno ritenuto di dover firmare a seguito delle dichiarazioni di Agamben e colleghi pone al primo punto la questione della funzione della filosofia in rapporto alla scienza. Essi ricordano che sebbene la filosofia debba certamente assumere un ruolo critico in relazione alla scienza, come affermato da Agamben, questo ruolo non può mancare di rispettare i risultati scientifici riportandoli non correttamente. Infatti, nel loro vago parlare oracolare, le sole cose prive di ambiguità profferite da Agamben e Cacciari ricalcano perfettamente i luoghi comuni del dilagante populismo anti-scientista. Si legge, ad esempio, in uno svilente passaggio della nota dei due pensatori del 26 Luglio 2021:
Una cosa è sostenere l’utilità, comunque, del vaccino, altra, completamente diversa, tacere del fatto che ci troviamo tuttora in una fase di ‘sperimentazione di massa’ e che su molti, fondamentali aspetti del problema il dibattito scientifico è del tutto aperto[19].
I firmatari, in pratica, concorrono a dar corpo alle percentuali di quell’analfabetismo scientifico evidenziato dal Censis nel rapporto che, nella riduzione per la stampa, aveva per titolo “il sonno fatuo della ragione”. Imbarazzante, come lo è, per dei filosofi teoretici, non sapere che il dibattito scientifico è sempre aperto, altrimenti non di scienza si parlerebbe, ma di fede. Parlare in questi termini, quindi, significa non sapere che cosa sia un trial clinico. Cacciari, insomma, sembra venir meno al monito del suo Wittgeinstein, quando questi diceva “Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere”. D’altro canto, benché il dibattito sia aperto, nessuna delle riviste scientifiche che i due citano quasi ne fossero assidui lettori ospita confronti o cita controversie su fantomatiche “sperimentazioni di massa”. Viene il dubbio che quelle riviste non le leggano. La cosa buffa è che se quella in atto fosse una sperimentazione, questa avrebbe il più grande “gruppo sperimentale” della storia, i vaccinati nel mondo, mentre coloro i quali affermano di non voler partecipare ad una sperimentazione, vi starebbero partecipando nel ruolo utilissimo di “gruppo di controllo”. Si potrà comunque obiettare sulla perifericità di osservazioni di tale fatta quando il vero argomento degli intellettuali preoccupati dalla certificazione vaccinale sarebbe il vulnus alla libertà individuale che questo comporterebbe. In effetti, nel citato editto del comitato “Dubbio e Precauzione”, gli illustri firmatari affermano – non palesando alcun dubbio e men che meno la minima precauzione -, che “Ogni regime dispotico ha sempre operato attraverso pratiche di discriminazione, all’inizio magari contenute e poi dilaganti”, affermazione seguita da riferimenti alla Cina che avrebbe dichiarato “di voler continuare con tracciamenti e controlli anche al termine della pandemia” – davvero? plausibile, ma dove lo si può leggere? – e al ‘passaporto interno’ in uso in Unione Sovietica – un paese che non c’è più. Ora, se non ci si dice cosa avrebbe a che fare la Cina comunista odierna o la defunta Unione Sovietica con la situazione italiana ed europea odierna, se non ci si dice perché si starebbe impiantando questo regime di controllo, chi lo starebbe attuando e su quali dati oggettivi lo si possa affermare, si è tentati a pensare che gli “argomenti” di questi signori non si discostino da quelli dei più ottusi seguaci delle teorie del complotto. Più di trent’anni fa, Harry Frankfurt descriveva chiaramente fa questo genere di discorsi in un saggio dall’inequivocabile titolo (Stronzate. Un saggio filosofico, Rizzoli, 2005 [ed. italiana]). Egli metteva in luce la differenza essenziale fra il lier ed il bullshiter. Il primo può essere smentito, perché opera in una realtà in cui esiste la condizione per smontare il falso, mentre il secondo costruisce un mondo in cui la realtà non è un fattore di particolare importanza. Conta l’effetto dell’affermazione. Ciò diffonde l’idea che ogni cosa sia relativa e la verità sia irraggiungibile. Questo Frankfurt lo scriveva nel 1986, prima di internet ed esattamente vent’anni prima che l’Oxford English Dictionary eleggesse il termine post-truth (post-verità) quale “parola dell’anno”. Dolosa o casuale che sia, la post-verità è una affermazione inaccurata o palesemente falsa che ha la capacità di deligittimare il sentire e l’agire dell’opinione pubblica mainstream. In tal senso, la post-verità è sempre una forma di teoria della cospirazione. Insomma, a sentirli parlare di “biopolitica” o di “pensiero negativo”, si ha l’impressione di ascoltare sentenze di saggezza superiore, ma quando scendono sul piano dei fatti, alcuni illuminati pensatori si dimostrano indistinguibili da un qualsiasi Meluzzi o dal militante medio di Forza Nuova. Si comprende così come, invece di esaminare il trito e ben noto elenco di errori cognitivi dei seguaci del movimento “no vax”, sia molto più importante evidenziare le fallacie logiche di chi si propone quale loro tribuno. Fra questi, riconosciamo con facilità artefìci come l’argumentum ad misericordiam, cioè il far leva non sulla logica ma sull’emozione, soprattutto la pietà (come è il parlare della supposta discriminazione subita dai non vaccinati); abbiamo poi l’argumentum ad judicium, secondo il quale la verità di un enunciato sarebbe testimoniata dal fatto che esso è giudicato valido da settori particolarmente influenti della popolazione (ad esempio, gli stessi enunciatori) e l’argumentum ad populum, che si appella al sentimento popolare e che del precedente è una forma particolare molto cara ai populisti di ogni risma. Si tratta, in sostanza, di argomenti retorici che un logico come Wittngestein avrebbe disprezzato, ma che forse Hoover avrebbe amato. Chiaramente, tutto ciò comporta un effetto, quello di rafforzare speculari pregiudizi in un volgo preda di quello che Nichols chiama l’“errore aggressivo”. È il caso dell’argomentum ab autoritate, uno dei bias cognitivi più efficienti che porta ad affermare la verità di una asserzione sulla base dell’autorevolezza di chi la esprime (“non lo dico io, lo ha detto perfino Agamben” o qualunque altro personaggio, generalmente ignoto a chi sta parlando prima che l’eminente si esprimesse a favore della sua tesi). Questo mette Agamben e Cacciari allo stesso livello di un premio Nobel molto amato da tutti coloro i quali diffidano della scienza tranne quando ritengono che scienza gli dia ragione – un utilizzo flessibile dei dati che richiama quello delle intercettazioni di Hoover –, cioè Luc Montagnier, i cui apporti scientifici più recenti riguardano la cura del Parkinson con la papaya e studi sulla memoria dell’acqua. Everything goes.
NOTE [1] Brotherton, R. (2017), Menti sospettose. Perché siamo tutti complottisti. Torino, Bollati Boringhieri (Ed. Italiana) [2] Censis, Rapporto annuale 2021 [3] Asimov, I., A cult of ignorance, Newsweek, 21 Gennaio 1980 [4] Nichols, T., La conoscenza e i sui nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, LUISS University Press, 2018 (Ed. It.) [5] Ward, C., Voas, D. (2011) The Emergence of Conspirituality. Journal of Contemporary Religion, 103-121 [6] Ferri, G., Sangue, patria e ambiente: l’ecofascismo è il nuovo volto delle sette. L’Espresso, 24 Marzo 2021 [7] Lyotard, J.F., La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1981 (Ed. It.) [8] Ibidem [9] Jervis, G., Manuale critico di Psichiatria, Feltrinelli, Milano, 1975 [10] Ivi, p. 138 [11] Feyerabend, P., K., Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1979 (Ed. It.) [12] Feyerabend, P., K., La scienza in una società libera, Feltrinelli, Milano, 1981 (Ed. It.) [13] Feyerabend, P., K., Addio alla ragione, Armando editore, Roma, 1990 (Ed. It.) [14] Feyerabend, P., K., La scienza in una società libera, op. cit., p. 162 [15] Feyerabend, P., K., Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1979, p. 244 [16] Feyerabend, P. K., La scienza in una società libera, op. cit., p. 162 [17] Ferraris, M., Perseverare è diabolico. Dialettica del postmodernismo, Micromega, 9 Dicembre 2011 (https://tinyurl.com/uhcb6oa) [18] Jervis, G., (a cura di M. Marraffa), Contro il sentito dire, Feltrinelli, Milano, 2014, p. 210 [19] Cacciari., M., Agamben, G.. A proposito del decreto sul green pass, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 26 Luglio 2021
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