di Luigi Corvaglia
Definire l'uomo una bestia è adularlo:
il maschio è una macchina, un vibratore ambulante.
Valerie Solanas, SCUM Manifesto, 1967
Nazionalsocialismo o caos bolscevico?”. Così era scritto. Non ci rimase bene la sbirraglia della Gestapo quando al loro bel manifesto propagandistico sui benefici del nazismo fu allegato un foglietto apocrifo. Sotto la grande scritta di quella che doveva apparire come una domanda retorica qualcuno si era infatti premurato di affiggere un volantino su cui era scritto “Erdapfel oder Kartoffel?”, cioè “patate o patate”? Ecco. Benché Proudhon abbia affermato che le antinomie sono la vera struttura del sociale, l’aggregato di bipedi ai quali mi pregio di appartenere sembra operare una lettura della complessità basata su contrapposizioni che si rivelano illusorie. Due totalitarismi, insomma, andrebbero inclusi in una medesima categoria e contrapposti alla democrazia. Nel campo ideologico questa fallacia, nota come “illusione di alternative” si presenta ad ogni piè sospinto. Tanto premetto al fine di evitare almeno le più scontate delle reazioni alla mia dichiarazione di profonda ostilità alle cosiddette battaglie per la difesa dei “diritti” delle donne effettuata chiedendo il soccorso alla forza dello Stato. Sia chiaro, non posso certo impedire a chicchessia di etichettare la cosa come “maschilismo”, ma si sappia che ciò sarà possibile solo sulla scorta del ragionamento in base al quale è maschilismo ciò che si oppone al “femminismo”. In realtà, io credo che maschilismo e femminismo non siano una coppia di opposti più di quanto non lo siano le patate e le patate. In realtà, posti in un certo modo, si tratta della medesima pretesa suprematista. Premetto ancora che ritengo in media gli uomini peggiori delle donne. Sono bastardi, fedifraghi, bugiardi, competitivi e opportunisti in percentuali ben maggiori. Il fatto è che posso fare questa affermazione senza timore di essere coperto da vituperi da parte di qualche conspecifico del mio sesso o da una qualche associazione che raduna primati forniti di genitali esterni al fine di difenderne i supposti “diritti”. Tutti sappiamo, invece, che chiunque mettesse in fila un similare elenco di pessime qualità in riferimento alle donne dovrebbe cominciare a temere per la propria incolumità. Qualcosa questo dovrà pur significare. Molte cose, forse. Di certo una di queste è che, come diceva George Orwell, alcuni esseri umani sono “più uguali” di altri; già, ma quello che rende un supposto “diritto” tale è la sua universalità, altrimenti cessa di essere un diritto e diventa un privilegio. Noi uomini lo sappiamo bene, visto che di privilegi abbiamo goduto a lungo. Ora, è bene chiarirci sul fatto che non esiste qualcosa come i “diritti” in senso oggettivo. I diritti sono delle aspettative che ci si attende vengano soddisfatte perché una specifica società le ha rese ragionevoli e consone al proprio senso di giustizia. Ma giustizia è equità. Se si è tutti uguali si “deve” essere trattati in modo uguale. Per questo si dice che tutti hanno i medesimi “diritti”. Se nella mia società ognuno ha il diritto di non essere discriminato per il proprio sesso, non dovrà esserlo né in quanto donna, né in quanto uomo. Il discorso fila. Parità è equità e l'equità alimenta la concordia sociale. Peccato che, nonostante la continua geremiade femminile sul permanere delle discriminazioni nei confronti delle donne anche nelle nostre avanzate società occidentali, cosa che sicuramente avviene in alcuni ambiti subculturali, anche dei nuovi privilegi di cui ormai esse godono è difficile tenere il conto. Ciò grazie agli strumenti che ci vengono venduti come la garanzia di equo trattamento: legislazione e diritto. Cominciamo dal diritto di famiglia. Nella quasi totalità dei casi di separazione e divorzio le donne si tengono la casa e i figli, mentre il marito viene sbattuto per strada e, per sovrapprezzo, permane la tendenza a pretendere da questo poveraccio di dover permettere alla ex consorte lo stesso tenore di vita di prima. Equità, si diceva.
Vogliamo parlare del diritto penale? Una delle parole feticcio del nuovo secolo è stalking. Si dà per scontato che la vittima dello stalking sia sempre donna. L’art. 612 bis sugli atti persecutori chiarisce perfettamente che se inviassi qualche mazzo di rose alla donna di cui fossi innamorato commetterei un atto che si configura come una condotta criminale qualora questa donna affermasse di ricavare un disagio psichico o esistenziale dal fatto di ricevere tali omaggi floreali (cioè, nel caso in cui non le piacessi). Infatti, non esiste alcun criterio oggettivo per definire una molestia, ma solo quello soggettivo della vittima. Infatti, se la donna ricambiasse il mio amore, anche venti mazzi al giorno non costituirebbero alcun reato. A decidere se il reato sussiste o no è la destinataria delle attenzioni. E’ dai tempi della caccia alle streghe, quando l’accusa si basava sulla dichiarazione di maleficio subito da parte della vittima, che non avveniva una cosa simile. Eppure gli apologeti dello “stato di diritto” affermano che di questa entità il principio fondamentale sarebbe quello che vuole che le norme penali siano caratterizzate da una descrizione della condotta criminosa quanto più oggettiva e precisa. Ciò al fine di ridurre al minimo gli spazi di discrezionalità nella valutazione dei fatti. Gli spazi di discrezionalità rischiano di creare categorie protette e categorie maledette. Ciò che è certo è che l’arma della denuncia per stalking viene ormai agitata, esclusivamente dalle donne, nei confronti dei coniugi al fine di ottenere condizioni più vantaggiose nei procedimenti di separazione. L’apoteosi dell’ idiozia, però, è l’imperante ultima moda in fatto di luoghi comuni, cioè la l’ “emergenza femminicidio”. Il concetto è molto trendy: il mondo si sarebbe riempito di uomini intenzionati ad uccidere le donne. Gli uomini usano la violenza quale mezzo di mantenimento di perpetuazione della fallocrazia, giusto? Nonostante il martellamento mediatico che ha favorito la promulgazione di una raffazzonata legge inserita nel nostro ordinamento penale, la notizia è falsa. Non esiste nulla di simile ad una “emergenza femminicidio”, almeno non più di quanto esista una emergenza biondicidio (che riguarda i biondi), calvicidio (calvi), miopicidio (miopi), ecc. E’ ovvio che finché esisteranno gli omicidi verrà uccisa una percentuale di biondi, di calvi, di miopi e, quindi, anche di donne. Insomma, gli uomini sono molto più violenti delle donne e commettono la stragrande maggioranza degli omicidi. Il fatto è che i sessi sono solo due, quindi che ci siano molti uomini che uccidono anche donne appare ovvio. Cionostante, il rapporto fra maschi e femmine vittime di omicidio è di sette a tre. Inoltre, il numero di donne uccise non è mai cresciuto negli ultimi vent’anni né in senso assoluto né relativo. Poiché poi per femminicidio si intende, non l’uccisione di una donna da parte di un uomo, bensì l’uccisione di una donna perché donna, le percentuali risultano veramente risibili. Non esiste alcuna emergenza femminicidio. Però esiste la legge sul femminicidio. Una vera mostruosità logica prima che giuridica. Si prevede l’aggravante per i casi di relazione affettiva con una vittima donna. In altri termini, il marito che uccide la moglie commette un atto più grave della moglie che uccide il marito. Equità, si diceva. Sempre gli entusiasti del diritto, nel cui novero non trovo posto, sanno bene che un reato deve essere punito avendo a riferimento l’azione compiuta e non la qualità della vittima. Appare del tutto impropria una scala nella gravità dei delitti costruita sulla base della riprovazione ideologica del fatto piuttosto che dell’ incidenza sociale del fatto stesso. L’ennesima concessione alla prepotenza della dominante cultura della misandria, ossia dell’odio politicamente corretto verso l’universo maschile. Ora, avvalorare e implementare la supposta lotta per la parità dei diritti delle donne mediante l’intervento coattivo dello Stato è masochistico e delirante, non solo per gli uomini, ma per tutti coloro i quali hanno a cuore una società libera ed equa.
Far valere i propri “diritti” chiedendo di farli imporre dallo Stato è come pretendere che a scuola non ci rubino le merendine perché abbiamo un fratello maggiore manesco e bullo che le merendine le ruba lui agli altri. Forse le merendine non ce le ruberanno più, ma certo quello che guadagneremo non si chiama né rispetto né simpatia.
Anche i devoti del rito elettorale saranno stati sfiorati da simili pensieri recandosi alle urne per le elezioni Regionali o Europee nell’attuale dominio del “politically correct”. Non si può più scegliere i propri “rappresentanti” perché li si considera validi, ma bisogna tener conto anche del sesso al fine di “garantire una adeguata rappresentanza femminile”. E questo non avviene solo in quel mercato delle vacche che è la politica, ma è obbligo di legge perfino nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa. Ecco che l’idiozia passa dalla condizione di tara sociale a totalitarismo, da fisiologica, ma democratica, inadeguatezza cognitiva a dittatura dell’imbecillità! Allora perché non immaginare una quota per i gay? Vogliamo discriminarli rispetto alle donne? Poi una quota per i trans, una per i transgender, una per i bisex e via così seguendo tutte le declinazioni della sessualità. E i calvi? Li vogliamo discriminare? I bassi? Gli islamici? Gli indù? Quelli con la erre moscia? E perché questa cosa deve valere solo per la rappresentanza politica? Se vogliamo veramente utilizzare la forza per falsare il gioco a favore di una categoria protetta dobbiamo immaginare delle quote rosa nei concorsi della pubblica amministrazione, per la scelta del medico di base, eccetera. E se qualcuno pretendesse le “quote azzurre” per l’insegnamento nella scuola dell’infanzia? Forse che lì non esiste una scarsa rappresentanza del genere maschile? Insomma, dai salotti mediatici ai postriboli politici non si fa altro che ciarlare di “meritocrazia” e poi si propone quale strumento di “emancipazione” un’idea di incommensurabile imbecillità come l’obbligo della “parità di genere”, una offesa al merito, alla libertà e anche alle donne. Una donna dotata di un minimo di orgoglio e di dignità dovrebbe sentirsi umiliata dall’ aver conquistato uno scranno o una poltrona, non per i propri riconosciuti meriti, ma solo perché portatrice di utero. Non solo. La “parità di genere” nella sua realizzazione pratica si concretizza come tutti sappiamo: in politica, si reclutano donne a caso, senza guardare a meriti, competenze, volontà solo per non far saltare le liste; nei consigli di amministrazione siedono esclusivamente donne appartenenti alla famiglia del maggior azionista. Questo, non perché una società maschilista e fallocratica impedisca alle donne di candidarsi o di pretendere di fare impresa, ma perché, rispetto agli uomini, sono molte di meno le donne che vogliono o possono permettersi di partecipare alla vita politica ed imprenditoriale. Una società libera o anche solo sufficientemente liberale si basa sulla volontaria scelta degli individui e il loro libero arrangiamento. Non è creando recinti di protezione per panda che le donne raggiungeranno la parità nella rappresentanza politica o societaria. Soprattutto, non è la parità nella rappresentanza a garantire di vivere in una società libera, avanzata e democratica. Altrimenti il paese più emancipato del mondo sarebbe il Rwanda, visto che la nazione africana guida la classifica dei paesi a più alta percentuale di donne in parlamento: ben il 63% del totale! Gli USA, il paese in cui le donne sono più ricche e potenti, ed uno di quelli in cui sono più libere ed emancipate, hanno solo il 17% di donne al Congresso. Probabilmente hanno cose più degne di cui occuparsi.
La verità è che il paradigma patriarcale, predominante nella vulgata femminista, ripropone le categorie marxiane di classe traslandole al concetto di genere. Questo significa immaginare uno stato di guerra, cioè una lotta di genere, specchio di quella di classe, che fa della famiglia il luogo elettivo dell'oppressione e la violenza maschile lo strumento privilegiato per mantenere le donne in uno stato di sottomissione. Da ciò derivano sentenze quali quelle delle più celebrate guide del movimento femminista, da Robin Morgan ("Ritengo che l'odio per i maschi sia un onorevole e vitale atto politico, e che la classe degli oppressi abbia il diritto di odiare la classe che la opprime") a Marylin French ("I mass media trattano la violenza sulle donne, ad esempio lo stupro, le percosse e l'omicidio di mogli e fidanzate, o l'incesto maschile con i propri figli, come aberrazioni che riguardano solo l'individuo. Nascondendo il fatto che in verità qualsiasi violenza maschile nei confronti delle donne fa parte di una operazione pianificata.") . Gli uomini sono dolosi, mai colposi, non dotati di fallo, ma fallocrati impegnati a mantenere con la violenza e gli abusi il loro dominio. Da tale lettura deriva anche il luogo comune della maggior virtù dell’oppresso già visto all’opera in favore dei popoli colonizzati. Si, anche con l’ ex angelo del focolare si ripropone il mito guevarista della maggior virtù della classe sfruttata, stucchevole zucchero a velo di cui è cosparsa spesso la retorica delle quote rosa.
Molti sono i parrucchieri, tante le maestrine, tantissime le conduttrici di talk show per casalinghe tutt’altro che emancipate a diffondere il verbo. Pare che la pretesa delle donne di forzare gli steccati di questa fantasmatica forza di fallodotati sia avvalorata non solo da ragioni di giustizia, ma anche, e forse soprattutto, dal fatto che le donne gestirebbero meglio società e cosa pubblica. Esse non sono violente e guerrafondaie come l’uomo, esse danno la vita, sono sensibili, sanno fare più cose insieme, sono più efficienti e meno competitive. Insomma fate governare le donne e il mondo diventerà un paradiso di efficienza e di pace. Sarà, ma le donne che conosco io sono in uno stato di tale insofferenza delle proprie consimili che dichiarerebbero una guerra al giorno. Alcune farebbero un deserto pur di averla vinta sulla vicina o per vendicarsi di un sottinteso che un uomo non sarebbe mai riuscito a comprendere. Datele il potere assoluto e saranno giorni amari. Esattamente come quando lo date agli uomini. Il potere non ha sesso. Insomma, si tratta della differenza fra Erdapfel (patate) e Kartoffel (patate).
Massimo Introvigne (born June 14, 1955 in Rome) is an Italian sociologist of religions. He is the founder and managing director of the Center for Studies on New Religions (CESNUR), an international network of scholars who study new religious movements. Introvigne is the author of some 70 books and more than 100 articles in the field of sociology of religion. He was the main author of the Enciclopedia delle religioni in Italia (Encyclopedia of Religions in Italy). He is a member of the editorial board for the Interdisciplinary Journal of Research on Religion and of the executive board of University of California Press' Nova Religio. From January 5 to December 31, 2011, he has served as the "Representative on combating racism, xenophobia and discrimination, with a special…