di Luigi Corvaglia
1. Voto Barabba. L’altro non mi convince
Tra le cose sicure, la più sicura è il dubbio
Bertold Brecht
Alcuni personaggi storici sono condannati ad essere ricordati in eterno come esempi poco gratificanti, magari per presunti atti sconvenienti da loro commessi o per questioni assolutamente secondarie della loro biografia. Caligola, ad esempio, è ricordato come il matto che avrebbe nominato senatore un cavallo e tutti associano l’imperatore Vespasiano ad alcuni ineleganti ma utili arredi urbani. Il generale Cambronne, poi, è noto agli scolari come uno avvezzo al turpiloquio. Su nessuno, però, si esercita lo stesso sprezzo morale che si applica a colui che fu governatore di Giudea negli anni narrati dai Vangeli: Ponzio Pilato. Lui si lavò le mani. Neanche dell’Imperatore Nerone che, secondo la leggenda, suonava la lira mentre Roma bruciava, si sottolineano le pecche umane e politiche come di chi ebbe la sventura di rappresentare l’Impero in quella landa mediorientale intorno al 30 DC. Quest’uomo gode di pessima stampa. La tradizione, infatti, ne ha fatto l’esempio per antonomasia dell’insipienza e della pavidità di colui che non prende posizione permettendo così il perpetrarsi dell’ingiustizia. Ma è veramente così? Il primo a porre la questione in altri termini è stato un filosofo del Diritto, Hans Kelsen. Il massimo esponente del positivismo giuridico ha scritto che la narrazione del processo a Gesù di Nazareth “assurge a tragico simbolo dell’antagonismo fra assolutismo e relativismo”[1]. L’assolutismo del Cristo, il relativismo di Pilato. Certo, il governatore non può essere definito un campione della libertà, è comunque un agente dell’imperialismo romano e, quindi, un assolutista politico, ma, dal punto di vista etico e religioso, in quanto politeista, è molto tollerante. La scenetta narrata dall’evangelista Giovanni, del resto, è sublime e quasi umoristica nel presentare il confronto fra il tono ironico del governatore di Roma e la seriosità del Cristo. Questi, sicuro del fatto suo quanto può esserlo il figlio di Dio, risponde come se non fosse in grado di cogliere altro oltre il piano letterale delle parole del romano. “Sei tu, così, il re dei Giudei?”, chiede sarcastico Pilato, convinto di avere a che fare con un povero pazzo. “Tu lo dici che io sono re – risponde il nazareno – per questo io sono nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza della Verità. Chiunque è dalla Verità ascolta la mia voce”. Qui lo scettico Pilato, con lo stesso fare ironico chiede “Che cos’è la Verità?”; è una domanda retorica alla quale Il nazareno sembra comunque tentato a rispondere. Pilato non lo sa cosa sia la Verità, questa Verità in cui sembra ciecamente credere l’uomo innanzi a lui. Egli è scettico e relativista. Si affida pertanto, con perfetta coerenza, alla volontà popolare, rimettendo la decisione alla più pura procedura democratica: la democrazia diretta. Rivolgendosi ai Giudei, dice “io non vedo in lui nessuna colpa”. E’ piuttosto evidente che, da tollerante e fallibilista, Pilato è disposto a salvare chi crede in cose in cui lui non crede. Infatti dice “Voi avete l’usanza che vi rilasci uno in occasione della Pasqua. Volete dunque che vi liberi il re dei Giudei?”. Il popolo era di un altro avviso. Tifava un certo Barabba, il quale compare nel Vangelo solo a questo punto (“Barabba poi era un ladro”), nel senso che la questione non fu messa in origine come una scelta fra i due. Semplicemente, alla proposta di Pilato, i Giudei dissero “Non lui, Barabba”. Questo noto episodio è sicuramente un validissimo argomento contro la democrazia. Lo è, però, soprattutto per chiunque sia convinto che l’uomo crocefisso fosse realmente il Figlio di Dio e che questi portasse la Verità. Altrimenti, la scelta effettuata dai Giudei quando si trovarono davanti alla prospettiva di salvare un bislacco messia come tanti che circolavano per la regione oppure un tizio inviso al potere imperiale romano e, come sembra[2] da alcune fonti, combattente contro l’occupazione imperiale, appare piuttosto razionale.
Ciò che motiva Pilato a non prendere posizione è proprio la mancanza di imperativi assoluti, mancanza che è la vera fonte della tolleranza. Ha scritto, infatti, Kelsen che la procedura dell’affidamento al popolo può apparire discutibile solo alla condizione “di essere così sicuri della nostra verità politica da imporla, se necessario, con il sangue e con le lacrime, di essere così sicuri della nostra verità, come lo era, della sua, il Figlio di Dio”[3]. In altre parole, chi è guidato da imperativi categorici e Verità uniche, incontrovertibili e superiori è, giocoforza, portato ad imporre la sua visione “con il sangue e con le lacrime”. Del resto, se gli altri sbagliano e non colgono l’importanza del bene che gli portiamo, quale remora potremo mai avere nel fargli del male, visto che sarà fatto in nome del bene? I seguaci di Cristo ce ne hanno dato ampia conferma per secoli. Chi, di contro, se ne lava le mani, lungi dal manifestare necessariamente pavidità e qualunquismo, fornisce garanzia di tolleranza e pacifica convivenza. Semplificando molto, nel primo caso, direbbe Popper, si hanno le “società chiuse”, nel secondo le “società aperte”. Per meglio chiarire, si provi, a mo’ d’esempio, ad avvicinare a uno dei due prototipi qui utilizzati, cioè Gesù e Pilato, i seguenti personaggi storici raggruppati in due gruppi così strutturati: Gruppo A: Stalin, Hitler, Osama Bin Laden, Castro, Pinochet, Mussolini, Ho Chi Min, Mao, Bush; gruppo B: Voltaire, Gandhi, Bruno, Locke, Lessing, Arendt, Russell, Salvemini. Quale dei due gruppi, indipendentemente dalla qualità del messaggio, appare più connotato dalla sicurezza circa la superiorità etica della propria visione e dalla contestuale necessità di imporla? Quale, invece, da scetticismo, rispetto e tolleranza? Appare chiaro, se liberiamo la mente dalla nebbia emotiva, che la risposta alla domanda “chi è più affine, quanto a logica, al Cristo e chi più a Pilato?” riserva grosse sorprese alle persone non abituate alla riflessione. Ciò, ovviamente, non riguarda la qualità dell’idea. Ben si sa, infatti, che il Cristo porta un messaggio di amore e fratellanza molto diverso dal delirio hitleriano (che pure tanto deve al Vangelo di Giovanni…). Il nucleo del discorso non sta tanto in quali idee vengono sostenute, ma in come vengono sostenute. Possiamo eufemisticamente dire che le idee sostenute con più “entusiasmo” sono quelle considerate dogmi e, in quanto tali, indimostrabili nella loro pretesa di Verità assoluta. Esempio massimo, le idee religiose, ma anche le ideologie politiche. Del resto, i concetti dimostrabili non necessitano di grande sforzo per imporsi; lo sforzo è necessario per convincere gli altri solo dell’ indimostrabile, che poi è, generalmente, il fatto che noi siamo meglio di loro. Infatti, diceva Voltaire, non esistono sette in Geometria. La geometria si dimostra, la transustanziazione no.
2. Simpatia per il diavolo
Ed ero in giro quando Gesù Cristo
ha avuto il suo momento di dubbio e dolore
ho dannatamente assicurato che Pilato
lavasse le sue mani e sigillasse il suo destino
The Rolling Stones (“Sympathy for the Devil”, 1969)
Il diavolo, si dice, è colui che instilla il dubbio. Eppure, da quanto detto si trae la conclusione che libertà e tolleranza si ergono proprio sul dubbio, cioè sulla coscienza della fallibilità del giudizio umano. Chi ama la libertà non porta idee infallibili, imperativi etici, religiosi, morali, politici. Chi ama la libertà non porta la Verità. Chiunque si fa portatore di verità assolute non ama la libertà. Come la scienza fornisce più informazioni su ciò che non è piuttosto che su ciò che è, definendo lo stato delle conoscenze in corso come verità temporanee, così l’amante della libertà non dice “questo è vero”, ma, piuttosto, con Bertrand Russell, “sono incline a pensare che nelle attuali circostanze questa sia probabilmente l’opinione migliore”[4].
Riprendendo il confronto fra monoteismo e politeismo esemplificato dall’esempio di Gesù e Pilato, ed allargandolo oltre gli angusti limiti religiosi, possiamo dire che la libertà si fonda sul politeismo dei valori. Molte le conseguenze di questo assunto. La prima e più importante è che chiunque sogni una società perfetta è un totalitario. La società perfetta, infatti, può ritenersi tale perché basata su indiscutibili perfezioni, cioè su dogmi circa la superiorità di un certo assetto sociale, etico ed economico su un altro. E’, pertanto, una forma di monoteismo. Perfino la democrazia, se diventa sacralizzazione della volontà delle maggioranze, può diventare fanatica e pericolosa per chi non si allinea. E’ successo con i seguaci di Rousseau sotto Robespierre, ma anche nell’ Inghilterra di Cromwell. Una fede assoluta nella sovranità popolare rende impossibile la sovranità popolare. Nella vecchia Unione Sovietica le massime di Karl Marx erano talmente indiscutibili da contribuire al modo con cui i genetisti concepivano le pratiche per migliorare la produzione di frumento. Marx era la Verità. Il messia. La verità storica, invece, ci parla del disastro dell’agricoltura sovietica. Paul Claudel scrisse che “quando l’uomo tenta di immaginare per gli altri il paradiso sulla terra, il risultato immediato è un molto rispettabile inferno”. Perché? Perché l’aspirazione al bene supremo è anelito che induce a ciò che Paul Watzslavick definisce “ipersoluzione”, cioè un’azione, di cui si suppone la funzione salvifica, da parte degli individui più svegli e nell’interesse di un’ “umanità tanto bisognosa d’aiuto quanto ottusa”[5]. Il problema è che il migliore dei mondi possibili lo è, non in assoluto e oggettivamente, ma soggettivamente. Trasportare il soggettivo al generale prevede il sacrificio del singolo al totale, cioè il sangue e le lacrime di cui parlava Kelsen. Robert Nozick, in “Anarchia, Stato, utopia”, stila un elenco di nomi, fra i quali Wittgenstein, Elizabeth Taylor, Bertrand Russell, Allen Ginsburg, Thoureau, Picasso, Mosè, Einstein, Hugh Hefner, Henry Ford, Socrate, Lenny Bruce, Buddha, Frank Sinatra, Colombo, Freud, Ayn Rand, Thomas Edison, Kropotkin e vari altri, più “voi e i vostri genitori”[6]. Dopo di che chiede al lettore di immaginare che tutti costoro vivano in una qualunque delle utopie immaginate nel corso dei secoli. Quale potrebbe essere la società perfetta valida per tutte queste persone così differenti? Ci sarebbe la proprietà privata? Ci sarebbe una religione? Quale? Più fedi? E il matrimonio? Monogamico o poligamico? Nozick conclude dicendo “L’idea che ci sia una risposta composita migliore di ogni altra a tutte queste domande, una società in cui tutti possano vivere nel modo migliore, mi parrebbe incredibile”[7]. Ne consegue la necessità di una società da costituirsi come “impalcatura per utopie”, cioè “un posto in cui la gente è libera di associarsi volontariamente per perseguire e tentare di attuare la propria visione di una vita bella in una comunità ideale, ma in cui nessuno può imporre agli altri la propria visione utopistica”[8]. Politeismo, dunque.
C’è chi potrà pensare che quanto imputato alle utopie, cioè l’intrinseco totalitarismo, sia cosa che non tocchi quella che, per definizione, si basa sulla lotta all’autorità: l’anarchia. Nulla di più sbagliato. Se, infatti, per anarchia si intende una società nuova che universalizzi il bene supremo della libertà e si strutturi staticamente come luogo senza frizioni, la totalitarietà del discorso resta intatta. In tale accezione di anarchia, per quanto la buona maggioranza di chi si definisce anarchico non si avveda del paradosso, è sempre valido ciò che scriveva Berdjaev: “Ogni confusione e identificazione della libertà con il bene stesso e la perfezione equivale a negare la libertà, a riconoscere la via della violenza e della costrizione. Un bene per forza non è più un bene, ma degenera in male”[9]. Il “bene per forza”, la virtù imposta, infatti, è più adatta a preti e messia. E’ monoteismo. Chiameremo questa concezione “anarchismo naif”. Se ne avvede più di un anarchico meno ingenuo. Fra questi, Thomas Ibanez, il quale descrive lucidamente il cortocircuito logico in cui cade il libertarismo che intende ridurre ad una le infinite forme dell’esistenza. Scrive: “dall’istante in cui l’esigenza della libertà è posta come valore fondamentale, ogni opinione che implica una minore esigenza di libertà costituisce automaticamente e necessariamente una opzione meno legittima.[10]” In effetti, non si può che etichettare come ingenue visioni che usano definirsi “comunismo anarchico”, “collettivismo anarchico”, “primitivismo anarchico” e altri ossimori. Infatti, l’aggettivo che si associa all’anarchia, ponendo dei limiti, di fatto, riduce le possibilità di estrinsecazione completa di opzioni diverse e contraddice l’idea di fondo, l’anarchia, appunto, che non prevede limiti di sorta. Come dice Ibanez, “Volendo essere una teoria centrata sulla libertà, l’anarchismo apre su una cultura che esige l’adesione di ognuno per poter esistere e che contesta la legittimità di tutto ciò che non è sé stessa”[11]. Questa teorizzazione monoteista non sembra cedere alle tentazioni luciferine del dubbio. Altri, come Faust, hanno maggior dimestichezza col signore delle tenebre. Proudhon, per esempio. Per il francese ogni tentativo di ridurre alla singolarità una pluralità è atto ostile alla libertà. A cominciare dalle antinomie. La sintesi di coppia antinomica è artificiale o mortale e, in ogni caso, negazione della libertà: «L’antinomia non si risolve. È questo il vizio fondamentale del sistema di Hegel», egli scrive. Così, «i termini antinomici non si risolvono più di quanto non si distruggano i poli opposti d’una pila elettrica»[12]. Fra le antinomie, quelle tra proprietà privata e proprietà collettiva, tra socializzazione e individualismo. Un altro grande del pensiero e dell’azione anarchica, Errico Malatesta, che pure si è sempre definito “comunista”, ma nel senso fallibilista che diceva Russell (cioè dell’uomo “incline a pensare che nelle attuali circostanze questa sia probabilmente l’opinione migliore”), si espresse in modo da dimostrare un atteggiamento tutt’altro che naif. Egli scrisse: “Si può dunque preferire il comunismo, o l’individualismo, o il collettivismo, o qualsiasi altro immaginabile sistema e lavorare con la propaganda e con l’esempio al trionfo delle proprie aspirazioni; ma bisogna guardarsi bene, sotto pena di un sicuro disastro, dal pretendere che il proprio sistema sia il sistema unico e infallibile, buono per tutti gi uomini, in tutti i luoghi e in tutti i tempi, e che si debba far trionfare altrimenti che con la persuasione che viene dall’evidenza dei fatti”[13]. Discorso degno di Ponzio Pilato, così vicino al fallibilismo empirista e al pluralismo e così lontano dall’inconsapevole fascismo di tanti poveri cristi dell’anarchia.
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[1] Kelsen, H., La democrazia, Il Mulino, Bologna, pag. 452
[2] il verso 16 del capitolo 27 del Vangelo secondo Matteo dice a riguardo di Barabba: “il quale era stato messo in carcere in occasione di una sommossa scoppiata in città e di un omicidio”
Se prendiamo in considerazione, invece, il vangelo di Marco (15, 7) troviamo l’espressione: “Un tale chiamato Barabba si trovava in carcere, insieme ai ribelli che nel tumulto avevano commesso un omicidio”.
[3] Ibidem, pag. 266
[4] Russell, B., Il mio pensiero, Newton Compton, Roma, 1997, pag. 473
[5] Watzslavick, P., Di bene in peggio, Feltrinelli, Milano, 1998
[6] Nozick, R., Anarchia, Stato, Utopia, Le Monnier, Firenze, 1981, pag. 329
[7] Ibidem, pag. 330
[8] ibidem
[9] Berdjaev, N., La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Roma, 1945
[10] Ibanez, T., Questa idea si coniuga all’imperfetto, su “Volontà”, n. 3-4, 12/1996, pp. 271-279
[11] Ibidem
[12] In Bancal, J., Proudhon, pluralisme et autogestion, Aubier, Parigi, 1970, t. I, pp. 106 sgg., 112 sg.; t. II, pp. 45, 170
[13] Malatesta, E., Qualche considerazione sul regime della proprietà dopo la rivoluzione, in “Il Risveglio”, 30 Novembre 1929
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