Pseudoscienza, culti alternativi e multiculturalismo. Le aporie dello pseudo-libertarismo
Di Luigi Corvaglia
E’ la differenza di opinioni quella che rende possibili le corse dei cavalli.
Mark Twain
1. Il tramonto dell’ oggettività
Un uomo si guardò intorno alla ricerca del cappello. Allungò la mano e afferrò la testa di sua moglie, quindi cercò di sollevarla e di calzarla a copertura del cuoio capelluto. Bizzarro. Come si può pretendere che una moglie funga da copricapo? E’ infatti più probabile il contrario. Molte mogli non sono più espressive e di compagnia di un buon Borsalino e tengono infinitamente meno al caldo. Ciò non toglie che l’episodio raccontato da Oliver Sacks, benché bizzarro, sia diventato una sorta di luogo comune neuropsichiatrico dopo che il compianto neurologo intitolò il libro che gli diede fama internazionale proprio L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Il lettore è sicuramente incuriosito da un caso che riconosce come singolare e bislacco. Stranamente, però, quando simili confusioni e fraintendimenti non riguardano persone od oggetti, bensì idee e concetti, il lettore non pare avvedersi della equivalente bizzarria del caso. Ciò anche se – e forse soprattutto perché – a prendere fischi per fiaschi, o mogli per cappelli, non è il singolo paziente afflitto da agnosia, bensì intere schiere di baldanzosi abitanti del pianeta, preoccupanti percentuali di fruitori della rete telematica, gente con diritto di voto. E’ il caso, per esempio, di chi scambia per democrazia ed antiautoritarismo, cioè per amore per la libertà ed egualitarismo, la difesa delle più balzane teorie pseudoscientifiche, perché, si sa, esiste una “dittatura della scienza” che non permette di dare eguale voce alle teorie “alternative”. Similmente, c’è chi si fa difensore d’ufficio dei culti più oppressivi in nome di una “libertà di culto” messa in pericolo da una dittatura “laicista” (o, a scelta, della chiesa cattolica) che impedisce la eguale dignità dei culti. C’è perfino chi, in nome di questo supposto spirito democratico arriva a schierarsi per la tutela delle società più antidemocratiche e totalitarie, e delle pratiche più offensive per la dignità umana, in rispetto della “cultura dei popoli non occidentali”, del “diritto alla differenza”, perché, è ovvio, voler debellare la Sharia di stato o la pratica delle mutilazioni genitali femminili è una forma di colonizzazione culturale. Fra tutto ciò e la democrazia, l’egualitarismo, il rispetto per le culture e l’antiautoritarismo corre la stessa distanza che allontana una moglie da un cappello. Cercherò quindi di spiegare come e perché ciò avvenga.
2. “E chi lo dice?! I paradigmi della stronzata
“Se leggete le loro frasi velocemente, suonano bene. Il rimedio è leggerle lentamente, riconoscerete così i meravigliosi paradigmi della stronzata” dice Gerald A. Cohen riferendosi a celebrati philosophes quali Jacques Derrida, Gilles Deluze, Julia Kristeva o Jacques Lacan. Si, perché “La cultura filosofica che, dalla seconda guerra mondiale in poi, ha prodotto la più grossa quantità di stronzate, sia rispetto al volume sia rispetto al calore con cui queste sono state accolte, è senza dubbio la cultura filosofica francofona “. Sappiatelo. Se qualcuno vi dice che “La vita è l’origine non rappresentabile della rappresentazione”(1) non è un folle, ma un seguace del deocostruzionismo, una corrente che fu molto in voga oltralpe ed uno degli apporti culturali che convergono a fondare le basi dell’odierna confusione. Nell’ambito della controcultura degli anni ’60, infatti, ad un certo punto avvenne la saldatura fra due componenti culturali a forte rischio di deriva irrazionalista, una alta, colta, l’altra bassa e scarsamente intellettualizzata. Alla prima afferiscono appunto il pensiero “post-moderno”, che si rifà a Nietzsche e che si caratterizza per una concezione relativistica del sapere, quindi per l’ostilità nei confronti della scienza e un apprezzamento di qualsiasi tradizione lontana dal pensiero razionale, ma anche il “decostruzionismo” di Jacques Derrida (e un po’ tutta la “french theory”), così attratto da tutto ciò che è indeterminato, frantumato o appaia come deriva dell’identità. Gente che non è che confonda moglie e cappelli, ma che addirittura arriverebbe a dire che una moglie può essere un cappello. Del resto chi lo dice che non lo sia? Quale autorità?
Questa pretesa di poter usare le lucciole come lanterne accomuna la versione colta della contestazione alla ragione con quella meno acculturata portata dai gruppi giovanili hippie e post hippie. Insomma, a partire dagli anni 60 un’ idea di relativismo andato a male ha immesso nel mondo l’idea che ciò che conta non siano i dati oggettivi, ma quelli soggettivi. Ciò significa che i fatti dipendono da come li si vede e che, forse, tutti hanno la loro parte di ragione. Questo comporta una minimizzazione delle differenze personali: Il problema è che le differenze personali sono il portato dell’individualismo nonché la fonte della democrazia, pertanto minimizzarle finisce col produrre l’appiattimento delle opinioni con conseguente diminuzione del diritto di critica, che è poi l’ anima della democrazia. Insistendo sulle differenze personali, si finisce paradossalmente per negarle sul piano epistemologico e morale, asserendo l’equivalenza delle diverse scelte e opinioni. E’ un buio in cui tutte le vacche sono nere.
Giovanni Jervis, psichiatra che non temeva certo di essere etichettato quale conservatore o antiegualitario, ha descritto perfettamente quel milieu quando scriveva che negli anni ’60 e ’70 “il senso critico viene bollato come distruttivo; il richiamo all’esame di realtà è liquidato come residuo di positivismo” ma “la negazione delle diversità personali diventa repressione dei diritti delle minoranze” (2). Queste, infatti, hanno l’ardire di essere diverse.
Perché il conformismo assolutista passi per antiautoritarismo e democrazia – cioè perché si possa calzare con nonchalance una moglie in testa – è necessario un nemico a cui far interpretare la parte dell’autoritario e lo si può facilmente trovare nell’oggettività. Infatti, l’oggettività tende a “imporsi” con l’ “autorità” dei dati (che sarebbe come dire che la legge di gravità è illibertaria perché ci toglie la libertà di saltare dal marciapiede al davanzale). Da qui la sfiducia nei saperi costituiti, nelle scienze esatte, in tutto ciò che è il cosiddetto “pensiero competente”. Ne discende un discredito, non di rado connotato di snobismo salottiero, per la cultura occidentale tout court – che su queste basi di individualismo ed oggettività si fonda- , e il recupero di tradizioni ancora non corrotte dalla modernità. Questo atteggiamento porta a rivalutare tutti i discorsi che non hanno la pretesa di essere competenti ma il merito di essere schietti, diretti, sinceri, emotivi. L’emozione è tutto. Ragione e competenza niente. Populismo e spontaneismo prendono il sopravvento. Le conoscenze esatte vengono degradate a miti condivisi e i miti rivalutati come forme universali di conoscenza. Astronomia ed astrologia, per esempio, divengono due “tradizioni”, due tribù culturali con eguale dignità, benché l’astrologia sia sicuramente più interessante, perché pre-moderna e democratica, non chiusa alla pratica per le persone non scientificamente competenti (3).
Le persone sono tutte uguali, anche le idee. Non esistono pareri più attendibili, ma solo pareri, tutti interessanti. Ma è qui che questo pseudo-egualitarismo manifesta un antiautoritarismo più apparente che reale. Lascio la parola a Jervis:
A chi fa notare che alcune teorie sono più verosimili perché meglio verificate, viene contrapposta un’obiezione: “Chi decide cosa è verosimile? Con quale autorità ci si vorrebbe portare ad arbitri della verità?”. Ma “Chi decide?” al posto di “quali fatti decidono?” dimostra la debolezza del ragionamento (…) E qui l’idea di autorità, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra. Infatti, la critica allo strapotere degli esperti non viene esercitata nel nome del diritto di andare a cercare, per conto proprio, fatti e verifiche, bensì nel nome delle emozioni, dell’ immaginazione, della nobiltà di tutte le idee. Il dibattito, rifiutando il valore di prove e controlli, rinvia solo all’opinione personale, alla soggettività più o meno attendibile di qualcuno. E allora accade, inevitabilmente, che qualcuno risulti più dotato di carisma di qualcun altro, e finisca per essere più ascoltato. In pratica, non è vero che tutti i pareri siano ugualmente autorevoli: a qualche individuo più che ad altri – abbiamo tutti bisogno di padri, diceva Freud – viene attribuita una dose insolita di saggezza. In questo modo, rifiutando gli esperti ci si ritrova fra le braccia dei santoni.(4)
3. sette e multiculturalismo
Il relativismo ideatico e concettuale che fa sì che tutte le persone esprimano idee degne e rispettabili, sia che dicano che la terra è tonda, sia che dicano che è piatta, si ripropone nel passaggio dagli individui alla culture. I costumi culturali sono tutti degni, anche i matrimoni combinati delle spose bambine o la tradizione del Sati, le vedove indiane che, nelle sperdute campagne, si ardono vive insieme al cadavere del marito. Sono tradizioni. Chi siamo noi per giudicare? Anche qui, l’iniziale impressione può essere quella che si tratti di una posizione progressista, libertaria e democratica. In realtà, il presupposto del relativismo culturale, cioè l’idea che non esistano società, culture e costumi migliori di altri, è solo apparentemente egualitario. Infatti, rinunciando al confronto e alla ibridazione, il relativismo culturalista è stato l’argomento centrale per giustificare l’ Apartheid in Sud Africa. Come osserva Pierre-André Taguieff, nel passaggio dalla “razza” alla “cultura” la logica del pregiudizio è rimasta immutata. Si “rispettano” le tradizioni di popoli diversi perché i loro meccanismi psicologici sono diversi. Sono fatti “così”. Quindi, non si dica che “i negri hanno il ritmo nel sangue”, ma, in modo “corretto”, “gli afroamericani fanno musica molto ritmata”…
Non è quindi un caso se il tema della relatività delle culture, qui denominata anche differenzialismo, sia centrale nella proposta della Nouvelle Droite, la destra radicale francese. Infatti, se tutte le etnie sono diverse l’una dalle altre, diverse e tutte rispettabili, tali differenze vanno preservate evitando il meticciato. Ecco che la via di fuga del relativismo che dovrebbe eliminare le differenze ne comporta, paradossalmente, la ricostituzione. Infatti, il multiculturalismo proposto da questo pensiero non è altro che la coesistenza di comunità separate all’interno di uno stesso territorio. Non ha alcuna importanza se all’interno di alcune di queste comunità non vengano rispettati i diritti umani che al di fuori sono considerati inviolabili. Per Alain de Benoist, principale teorico della Nuova Destra francese, del resto, i diritti umani non esistono, sono una creazione dei liberali per egemonizzare il globo, dato che ogni popolo ha una sua scala di valori morali. Quindi, guai a impedire l’infibulazione nelle bambine provenienti dal corno d’Africa, guai a tutelare la dignità della donna nelle comunità in cui è messa in pericolo. E’ il diritto alla differenza. Su questa base si intende costruire un “multiculturalismo” che non mira a integrare le minoranze allogene all’interno delle democrazie occidentali ma, al contrario, vuole la creazione di isole culturali non occidentali all’interno dei Paesi del primo mondo. Un buon esempio realizzato ne è il quartiere di Molenbeek a Bruxelles. Da qui venivano gli autori degli attentati di Parigi del 2015 e qui la percentuali di giovani islamici radicalizzati è alta. Una generazione di esclusi che ha interiorizzato la propria ghettizzazione passa con facilità dalla delinquenza all’ odio per i non-musulmani e da lì, su un piano inclinato, scivola verso ideologie jihadiste.
Ad ogni modo, anche senza concentrarsi sulle derive razziste, comunque utili per mostrare quanto sia “libertaria” questa concezione quando portata alle estreme conseguenze, è chiaro che questo tipo di proposta è solo apparentemente rispettosa delle fedi e dei costumi. Infatti, si fonda su una discutibile neutralità col rischio che si imposti una convivenza in cui lo Stato democratico rinuncia ad una parte dei propri diritti a favore di gruppi che non credono nella democrazia. Una democrazia coi buchi, come un formaggio svizzero.
La stessa logica la vediamo al lavoro quando si passa dalle culture ai gruppi chiusi. Questi sono piccole “culture”. E’ il caso dei culti minoritari, le cosiddette “sette” o, in modo più politically correct, “nuovi movimenti religiosi”. Il fenomeno dei gruppi spirituali alternativi è dilagato a partire dagli anni ’60 e ’70 a causa dell’ambiente culturale sopra descritto, così avverso alla logica aristotelica e così affascinato dalle culture non occidentali, ma soprattutto per il fenomeno descritto da Jervis, quello per cui il vuoto di expertise viene colmato dal carisma del santone. Similmente, le pratiche terapeutiche alternative sono fiorite nella medesima fascinazione per le culture non ancora corrotte dalla scienza e nel mileu dell’anarchismo metodologico del “tutto va bene”, per dirla con Paul Feyerabend, il teorico del relativismo in epistemologia. Nella rivisitazione che la corrente culturale contemporanea definita New Age fa di questi temi i due aspetti, spirituale e terapeutico, sono non di rado congiunti.
Tralasciando i casi che giungono agli onori della cronaca per violenze, stupri, riduzione in schiavitù e quant’altro si possa immaginare di turpe, in molti di questi gruppi minoritari la subordinazione dell’adepto è totale, il suo allontanamento dalla famiglia e dal mondo esterno la regola, il dissenso è represso. Sono dei piccoli regimi assolutisti. Esiste la “libertà di culto”, uno di quei diritti di cui de Benoist nega l’esistenza. Chi siamo quindi noi per giudicare? Cavoli loro, verrebbe da aggiungere.
Tutte le forme di spiritualità e di devozione sono egualmente degne di rispetto. Così, molti sedicenti e supponenti “liberali” in questo campo si dimostrano veramente confusi. Alcuni di essi, si ergono sulla base della difesa del diritto di culto a difensori d’ufficio di culti che sono anche abusanti, cosa che, in genere, non fanno quando si tratta di Stati totalitari, pur essendone questi culti la versione tascabile. Nel caso degli stati, infatti, essi fanno campagne per la loro democratizzazione e a difesa dei diritti dei cittadini. Nel caso dei gruppi di spiritualità alternativa, e anche dei gruppi in cui si praticano terapie pseudoscientifiche, pare che si preferisca difendere il diritto del guru-dittatore a persuadere i suoi adepti che non difendere questi ultimi dal primo. Un diritto si mangia gli altri. In genere, questi sono gli stessi “liberali” e “libertari” che fanno le campagne contro le mutilazioni genitali femminili nei paesi in cui ciò è prassi.
In definitiva, nella loro agnosia concettuale, gli apologeti dei culti propagandano l’idea differenzialista in versione mignon. Infatti, i culti, siano grandi e multinazionali come Scientology, o piccoli e locali come la miriade di gruppi costrittivi meno noti, sono, sovrapponibili alle culture allogene non integrate, isole culturali non occidentali e non democratiche all’interno dei paesi occidentali e democratici. I loro promotori e i loro difensori “progressisti” propongono la stessa visione “multiculturalista” vista precedentemente a proposito delle culture, la stessa discutibile neutralità, la stessa pretesa di uno Stato democratico che rinuncia ad una parte dei propri diritti a favore di gruppi che non credono nella democrazia. Un relativismo falso, peloso, incongruente, sovrapponibile alla visione della Nouvelle Droite. Altro che individualismo, liberalismo e difesa dei diritti. Questo è scambiare le mogli per cappelli.
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1 Derrida, J., La scrittura e la differenza, traduzione di G. Pozzi, Einaudi, Torino, 1990
2 Jervis, G., Individualismo e cooperazione. Psicologia della politica, Bari, Laterza, 2002, pag. 131
3 Paradossalmente, perfino un ambito medico come la psichiatria si è lasciata portare dalla corrente dell’anti-oggettività, in ciò facilitata dal preesistente antibiologismo portato dalla psicodinamica freudiana, che negli anni della contestazione sarebbe esplosa nella sfolgorante produzione (post moderna e decostruzionista) di Lacan, quella che fece dire ad Heidegger, “questo psichiatra ha bisogno di uno psichiatra”. Ogni collegamento del comportamento alla biologia è stato visto come un tentativo lombrosiano di introdurre un riduzionismo organicistico. Fatto è che all’ antibiologismo è legato a stretto nodo il moralismo. Infatti, se la biologia è costrizione e pretende di imporsi con l’autorità dei fatti, ciò contrasta con la teoria della libertà di migliorare illimitatamente. Nel magnifico mondo in cui se i fatti non si adeguano alla teoria è tanto peggio per i fatti succede che se il miglioramento atteso non avviene la colpa sarà del soggetto stesso che non ha mobilitato tutte le sue risorse per la propria espansione. Fa notare Jervis che così “ricompare in forme laiche l’idea della conversione”. Terreno privilegiato per vedere all’opera questo moralismo è quello della medicina delle dipendenze. Qui una pletora di operatori di formazione psicodinamica ha rifiutato e rifiuta, per ragioni morali e non scientifiche, di dare prevalenza al trattamento con farmaci sostitutivi dell’eroina. L’eroinomane sembra dover scontare la propria perversa ricerca del piacere con una disintossicazione rapida e quanto mai dolorosa e si attribuiscono le sue ovvie ricadute a debolezza di carattere, a ostilità nei confronti del terapeuta e altre prove della non avvenuta “conversione”.
4 Jervis, G., op. cit. pag. 138
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